di Antonio Cardellicchio
Grande donna senza quota rosa, grande ebrea, grande sionista, statista, socialista democratica. Tutto questo era Golda Meir, la cui vita è ben raccontata da Elisabetta Fiorito, giornalista, nel suo libro “Golda. Storia della donna che fondò Israele”, Giuntina 2024. Libro presentato con vivace narrazione da Miriam Rebhun, intellettuale e narratrice, nella Comunità Ebraica di Napoli.
Libro proibito dalla violenza antisemita diffusa, che aveva aggredito in stile squadristico la libreria di Firenze dove l’autrice stava presentando il libro. Stiamo raggiungendo il limite del rogo dei libri ebraici.
Storica protagonista della vita politica e sociale di Israele, Golda Meir è stata attivista di un kibbutz, militante sionista, sindacalista, dirigente del partito laburista, ministro (sar), primo ministro. Ha contribuito alla formazione dello Stato di Israele in periodi decisivi.
Al tempo della Commissione Peel, quando cominciava a profilarsi la possibilità di uno stato indipendente ebraico, Golda sosteneva che il territorio assegnato dai britannici era troppo ridotto, una piccola striscia che non era capace di accogliere l’aliya degli ebrei, e che gli ebrei erano stati abbandonati a se stessi. Dichiarava: “Una sola cosa spero di vedere prima di morire, che il mio popolo non abbia più bisogno di ricevere compassione.” Giustizia, non compassione per il popolo ebraico sarà il senso dell’intera vita di questa donna. La memoria infantile dei terribili pogrom nell’Ucraina nativa sarà sempre presente nel suo cuore e nella sua mente, per una identificazione di destino con il suo popolo, come spinta a una volontà di libertà e indipendenza ebraica.
(Il Congresso sionista di Basilea)
Al congresso sionista di Basilea nel 1946, con una platea sconvolta dal lutto della Shoah, Golda esalta i sabra, la nuova generazione di ebrei nati in Palestina, giovani intrepidi che salvano i profughi portandoli a spalla dalle spiagge a terra. Dirà: “Il sionismo e il pessimismo non sono compatibili”.
Esemplare la sua azione subito dopo la proclamazione dello Stato, quando va negli Stati Uniti per raccogliere fondi che urgono per la difesa dall’invasione araba. A Chicago, davanti a un pubblico di organizzazioni assistenziali ebraiche, molto placido e distante, Golda pronuncia parole di fuoco:
“La comunità ebraica della Palestina è decisa a combattere fino alla fine. Se avremo armi con cui lottare bene, se non le avremo lo faremo con le pietre, a mani nude. Noi, cari amici, siamo in guerra. Non c’è un ebreo di Palestina che non sia persuaso che alla fine ne usciremo vittoriosi. Ma lo spirito non basta contro fucili e mitragliatrici. Il nostro problema è il tempo. Come possiamo procurarci subito le armi? E con questo non intendo il mese prossimo, ma immediatamente. In un paio di settimane, dobbiamo raccogliere tra i 25 e i 30 milioni di dollari. Non sarete voi a stabilire se dovremo combattere o meno. Questa decisione spetta a noi, e state certi che la comunità ebraica di Palestina non alzerà bandiera bianca. Sta a voi, però, decidere in questa lotta se a vincere saremo noi o il Muftì di Gerusalemme. Vi imploro: non tardate a prenderla, perché tra tre mesi potrete rimpiangere quel che non avete fatto oggi. Il momento è adesso, il tempo stringe.” La platea si alza, applaude e piange.
Da ministro degli Esteri, nel 1956, davanti a un’ondata di attacchi terroristici da Gaza, è favorevole a una risposta decisa: “Devono sapere che la pagheranno cara, non abbiamo iniziato noi tutto questo. Non mi interessa se non possiamo spiegare le nostre azioni al mondo. Non sarà perché il mondo non capisce, ma perché non vuole capire. Restare vivi significa molto di più che avere la pietà internazionale quando siamo morti.” Bruciante attualità di queste parole, oggi che il mondo crede ad Hamas e nega le ragioni esistenziali di Israele.
Quando nel 1956 due offensive israeliane conquistano il Sinai e la Striscia di Gaza, Golda visita Gaza, fino ad allora egiziana e base del terrorismo fedayin. Qui l’Egitto aveva ammassato mezzo milione di profughi in orrende condizioni di miseria e degrado. Lei resta sgomenta davanti a questa realtà e al cinismo dei dirigenti arabi, e riflette che questi infelici avrebbero potuto essere integrati da uno dei 49 stati islamici, e fa un paragone con l’opera di integrazione realizzata per gli ebrei giunti in Israele.
Nella crisi di Suez Israele viene lasciato solo, lei come ministro degli Esteri interviene all’ONU:
“Punto focale è l’ostilità araba sistematicamente diretta contro Israele. Tale inimicizia non è affatto naturale, trattandosi di un fenomeno artificialmente indotto e fomentato. Se l’odio non sarà più il motore della politica araba, tutto diventerà possibile. Più e più volte il governo di Israele ha teso la mano in segno di pace ai suoi vicini, ma finora sempre invano. Il proposito di distruggere Israele è un retaggio della guerra condotta da Hitler contro il popolo ebraico: non è mera coincidenza che i soldati di Nasser abbiano la traduzione araba di ‘Mein Kampf’. Sostituiamo allo sterile odio e alla brama di distruzione la cooperazione tra Israele e i suoi vicini, così facendo daremo vita, speranza e felicità a tutti i nostri popoli.”
In un faccia a faccia con Nixon nel 1969, dichiara:
“Quello che un tempo era la Palestina ospita adesso due paesi, uno ebraico e uno arabo, non c’è spazio per un terzo. Ai palestinesi non resta che cercare la soluzione dei loro problemi attraverso l’accordo con il paese arabo, cioè la Giordania, perché uno stato palestinese tra noi e la Giordania sarebbe ineluttabilmente destinato a diventare una base dalla quale risulterebbe più facile che mai attaccare e distruggere Israele.”
Ancora attualità: Biden e l’Unione Europea vogliono oggi imporre i due stati, fingendo di non sapere che si creerebbe una nuova Hamastan. Poi compie un giro tra le comunità ebraiche e si ferma in quella di Milwaukee, dove aveva vissuto da giovane, e vi pronuncia parole nette proprio nel liceo dove si era diplomata: “Gli arabi ci vogliono morti, ma noi abbiamo deciso di restare vivi.”
In un’emergenza della lunga guerra d’attrito con gli arabi, decide di formare un governo di unità nazionale che include Menachem Begin, storico leader del Likud.
La posizione di Golda sulla “questione palestinese” è netta e inequivocabile:
“Non c’è mai stato qualcosa come i palestinesi. Sono mai esistiti i palestinesi in uno stato indipendente? No, antecedentemente la Prima guerra mondiale la regione veniva considerata il sud della Siria, poi una Palestina inclusa nella Giordania. Non c’era un popoloso palestinese che abitasse la Palestina, perché semplicemente non esisteva. Non esiste un popolo palestinese, e non esistono i rifugiati palestinesi. Nel 1921, anche noi ebrei venivamo chiamati ‘palestinesi’. Non c’è posto per un terzo stato, sono lo stesso popolo che vive ad Amman, prima del 1967 non si era mai sentito parlare di palestinesi.”
In Italia, a un colloquio con Aldo Moro, si trova immersa in contorte circonlocuzioni filo-arabe. Allora schietta dichiara:
“Sa a cosa ho assistito in Palestina da giovane donna? Gli arabi uscivano la notte dai loro villaggi e si appostavano vicino ai kibbutzim per sparare a tradimento ai nostri. Gli arabi facevano saltare in aria gli sgangherati pullman che conducevano vecchi e giovani da Tel Aviv a Gerusalemme. Più volte avvelenavano i pozzi o seppellivano mine antiuomo sotto le strade. Mai permetterò che queste cose si ripetano.”
Nella celebre intervista a Oriana Fallaci, Golda critica la tolleranza italiana verso il terrorismo:
“Una tolleranza che, mi permetta di dirle, ha le sue radici in un antisemitismo non spento. Ma l’antisemitismo non si esaurisce mai nella sofferenza degli ebrei e basta. La storia ha dimostrato che l’antisemitismo nel mondo ha sempre annunciato sciagure per tutti.”
Ancora evidente attualità: l’antisemitismo furioso è cieco di oggi non vede che dopo l’annientamento degli ebrei verrà la distruzione della libertà e dignità per tutti. Del resto, l’ordine totalitario proprio questo vuole.
Golda avrà sempre un senso di colpa per l’impreparazione iniziale nella guerra del Kippur, sarà autocritica con se stessa e il suo governo. Poi si ritirerà a vita privata. Poi si spegnerà nel 1978.
Avrà funerali di popolo ammirato e commosso, una folla “di generazione in generazione”.
Compianta e memorizzata come grande leader, “regina” di Israele, madre della patria, esempio di dedizione.
Una leader che sapeva stare alla testa e non alla coda, che mostrava coraggio nella visione e nella decisione, carica d’amore per Israele, espressione di una sinistra di governo, non demagogica ideologica, mente aperta, grande cuore. Scolpita con la sua luce nella memoria di Eretz Israel, della diaspora, dei democratici del mondo intero
molto interessante. grazie . aspettiamo Elisabetta Fiorito a Perugia per presentazione libro su Golda Meir il 13 maggio