di Daniela Santus*
Insegno in Università da 32 anni e, da sempre, mi occupo di Medioriente con particolare attenzione ai temi dei diritti delle donne e alle questioni legate alla percezione degli insediamenti. Ho fatto lezione a quasi diecimila studentesse e studenti: i più mi hanno dimenticata, qualcuno mi manda ogni anno gli auguri per il compleanno, con alcuni ho fatto amicizia, con due o tre collaboro. Ho incontrato ragazzi anche al di fuori dell’ambito accademico: dall’estrema sinistra all’estrema destra. Tra i primi qualcuno mi ha contestata in maniera non proprio confacente al dialogo accademico. Tuttavia due di quei ragazzi, dopo avermi reso la vita davvero impossibile per mesi, hanno accettato una sfida: leggere almeno un libro tra quelli che avevo scritto.
Mesi dopo si sono riaffacciati al mio studio dicendomi che “prima” avevano creduto che io fossi “di parte”, ma che leggendo quanto avevo scritto avevano capito che intendevo solo sviluppare senso critico e riflessione, tanto che avevano deciso di consigliare i miei corsi universitari ai loro amici. Devo ammettere che non avrebbe potuto esserci recensione più lusinghiera e apprezzamento più gradito. Perché il problema, per noi che osserviamo dall’esterno l’evolversi degli eventi e viviamo in paesi perfettibili ma democratici, sta tutto qui: in un modo o nell’altro emettiamo dei pre-giudizi senza davvero conoscere, senza aver la curiosità di leggere. Siamo pigri e questa nostra indolenza finirà col portarci a perdere quelle libertà che diamo per scontate. Non importa se siamo studenti, insegnanti, operai o impiegati: bombardati da migliaia di informazioni, video, fake news, non siamo in grado di addentrarci con passione nella ricerca delle fonti, ci fermiamo ai titoli e diventiamo preda di chi ci vuole burattini facilmente manovrabili.
Gli studenti di oggi, a differenza dei miei due contestatori pentiti, difficilmente leggono un libro per intero: cercano in rete i riassunti già pronti o, se possibile, dei video su YouTube. Non deve pertanto stupire se, quando pensano a Israele, lo ritengano un paese più grande dell’Italia (quando di fatto è più piccolo del Piemonte) o pensino che oltre al Giordano vi scorrano il Tigri e l’Eufrate (che scorrono invece in Turchia, Siria e Iraq) o addirittura che l’islam sia nato in Israele (che chiamano Palestina) prima dell’ebraismo e del cristianesimo. Nonostante ciò, se si parla del conflitto in corso, sono convinti di sapere tutto, soprattutto di sapere che Israele è sempre nel torto. Purtroppo, molte volte, anche gli intellettuali difettano di conoscenza e si avventurano in ipotesi azzardate, come quella che vorrebbe uno stato d’Israele in cui vige l’apartheid, solo che, in quanto intellettuali, quando sbagliamo non siamo così umili da ammetterlo.
Una buona dose di curiosità
È inutile negarlo: siamo un paese di criminologi, virologi, allenatori di calcio ed esperti di Medioriente. Su Israele e sul popolo ebraico si pensa davvero di sapere tutto e i pregiudizi si sprecano. Quante volte, sui quotidiani, abbiamo letto, relativamente a Soros, la definizione di miliardario ebreo? Moltissime. E quante volte Berlusconi, per non fare che un esempio, è stato definito miliardario cattolico? Nemmeno una. Da qui comincia il pregiudizio: gli ebrei sono ritenuti tutti ricchi, per questo meritevoli di un giusto disprezzo. Eppure nessuno tra quanti la pensano in questo modo sa che il 23 per cento dei cittadini israeliani adulti e il 31,7 per cento dei bambini vive sotto la soglia di povertà. Di fatto il nostro dramma è la mancanza di curiosità scientifica: per questo finiamo col ripetere mantra, per certo aggregativi, ma del tutto privi di dubbi.
Uno di questi mantra fa riferimento, come s’è detto, a Israele come stato in cui si pratica l’apartheid. Questo senza neppure riflettere sul fatto che non vi sono, in Israele, mezzi di trasporto o scuole o quartieri vietati agli arabi. Basti pensare che negli ultimi sette anni il numero degli studenti arabi nelle università israeliane è cresciuto del 78,5 per cento. Nel 2018 il numero di dottorandi di ricerca arabi in Israele ha raggiunto le 759 unità. Possibile poi che nessuno si sia mai accorto che vi sono diversi partiti arabi rappresentati al parlamento israeliano e che, volendo, gli arabi possono anche presentarsi – e venire eletti – tra le fila dei partiti tradizionali? Il governo precedente a quello di Netanyahu, ad esempio, aveva al suo interno il partito arabo-islamico Raam con quattro seggi. Di fatto gli arabi in Israele godono di pieni diritti politici e civili e possono assurgere a qualsiasi carica, al pari dei cittadini ebrei. In queste ore, nell’esercito israeliano, stanno combattendo per Israele cittadini arabi, drusi, beduini, ebrei, islamici, cristiani, atei.
(Daniela Santus)
Il secondo mantra riguarda Gaza, percepita dai più come palestinese e islamica da sempre. Le immagini che ci vengono in mente, al solo pronunciarne il nome, sono quelle dei palazzi diroccati e devastati dalle bombe (israeliane), delle rampe di lancio missilistiche di Hamas (nascoste dietro alle scuole e negli ospedali), dei tunnel fatti scavare dai bimbi (nel solo 2014 ben 160 bimbi palestinesi, secondo il Simon Wiesenthal Center, sono morti durante gli scavi). Per quanto si vada indietro con la memoria, si tende al più a ricordare la conquista ottomana del 1517. Difficilmente si pensa a quella di Napoleone del 1799 o alla presa di Mohammed Alì (non il pugile!) che porta Gaza sotto l’ala protettiva dell’Egitto. Dal 1917, quando l’Impero ottomano viene sconfitto, la storia è nota: il Mandato britannico sulla Palestina (che comprendeva gli attuali Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza, oltre l’attuale Regno di Giordania) dura sino al 1948. In quell’occasione – avendo i leader ebrei accettato la spartizione dell’Onu – nasce lo Stato d’Israele, mentre la Cisgiordania, a seguito della guerra araba contro il neonato Stato d’Israele, viene annessa alla Giordania e la Striscia di Gaza finisce sotto occupazione egiziana. La Lega Araba aveva infatti rifiutato il piano per la seconda spartizione (la prima era stata operata dagli inglesi nel 1921 con la creazione dello stato arabo-palestinese della Giordania) e dato avvio alla prima guerra arabo-israeliana, i cui esiti finiscono con lo sconvolgere la possibilità della nascita di uno stato palestinese accanto a uno israeliano.
Per ben 17 anni – dal 1949 fino al 1967 – Gaza rimane sotto il governo militare egiziano. Come conseguenza della guerra dei Sei giorni (1967), viene infatti occupata da Israele che ne amministra il territorio sino al 1993. A partire da quella data, grazie alla “dichiarazione di princìpi” nota come “accordi di Oslo”, la quasi totalità del territorio di Gaza e della Striscia passa sotto il controllo dell’Autorità palestinese, mentre gli insediamenti ebraici continuano a essere difesi dall’esercito d’Israele sino al 2005. Tuttavia da quel momento Israele procede allo smantellamento delle colonie ebraiche e delle basi militari israeliane, ponendo così definitivamente termine all’occupazione.
Le domande, a questo punto, sono due: I) perché tra il 1949 e il 1967, quando Striscia di Gaza e Cisgiordania sono in mani arabe, non nasce lo Stato di Palestina? II) perché, a partire dal 2005, dopo la fine dell’occupazione di Gaza non nasce il primo nucleo di Stato palestinese? Viene il sospetto che la questione dell’occupazione non sia la motivazione più forte che sta alla base del protrarsi degli scontri.
Ad ogni modo, in seguito alle elezioni amministrative del 2006 la Striscia di Gaza è governata da Hamas e, dal 2012, è riconosciuta dall’Onu come parte di un’entità statale semi-autonoma. Purtroppo i continui scontri lanciati contro Israele – cui Hamas continua a negare il diritto ad esistere – e le conseguenti risposte militari israeliane hanno portato la città e la regione a un evidente stato di prostrazione economica e sociale.
Non aver paura della storia (e nemmeno della geografia)
Come s’è detto, Gaza non nasce come città palestinese o islamica. Da un punto di vista storico sappiamo che il Faraone Thutmose III, alla guida delle sue truppe, nel 1457 a.C., risale la “strada di Horus”, come veniva designata la Via Maris, ovvero la strada costiera ai tempi dei Faraoni e, proprio a Gaza, sceglie di celebrare il ventitreesimo anniversario della sua ascesa al trono.
L’islam nascerà quasi 2100 anni dopo che Gaza aveva ospitato i festeggiamenti di Thutmose III, ponendosi pertanto come la terza fede monoteistica in ordine di apparizione. Perché ribadire ciò che dovrebbe essere noto a tutti? Dopo 32 anni di insegnamento non posso fare a meno di notare – come ho scritto più sopra – che molti dei nostri studenti e delle nostre studentesse ritengono, tanto da metterlo per iscritto agli esami, che l’islam sia la fede più antica, nata in Palestina. Questo crea confusione anche per la comprensione dell’attualità, inducendo a percepire gli ebrei come europei colonizzatori di terre da sempre arabe. E proprio su temi come questi si gioca la disinformazione.
Di fatto Maometto, il profeta dell’islam, ha predicato per tutta la sua vita tra La Mecca e Medina, nella penisola araba, a 3.500 km da Israele. Non si è mai recato a Gerusalemme e mai ha avuto interesse nella conquista d’Israele.
Gerusalemme rappresenta da sempre il cuore della spiritualità ebraica e sebbene Gerusalemme e la Terra d’Israele abbiano subito varie dominazioni straniere e il popolo ebraico sia stato più volte, anche se mai del tutto, disperso, né la città né la terra sono mai state dimenticate. Nemmeno quando nel 132 d.C. l’Imperatore Adriano fa radere al suolo Gerusalemme e tenta di cancellarne ogni ricordo a partire dal nome. Gerusalemme viene così ricostruita secondo la pianta tradizionale degli accampamenti romani e chiamata Aelia Capitolina, mentre la Terra d’Israele viene ridenominata Siria-Palestina. Ecco da dove nasce il nome Palestina! L’Imperatore Adriano, nel tentativo di de-ebraicizzare la Terra d’Israele, fa riferimento al nome degli antichi Filistei, popolo greco che adorava Beelzebub e che per breve tempo si era insediato in un tratto della costa mediterranea, annientati poi dall’occupazione di Nabucodonosor.
La situazione per gli ebrei peggiora ulteriormente nel IV secolo, quando il cristianesimo – per opera dell’imperatore Teodosio – diviene la religione ufficiale dell’Impero e gli ebrei vengono sottoposti a una legislazione molto dura a causa dell’accusa di deicidio. Proprio per via delle persecuzioni, il centro della vita ebraica si trasferisce a Babilonia e, per la prima volta, gli ebrei non risultano più la maggioranza nel paese, sebbene ancora numerosi in Galilea. Quando nel 636 d.C. i musulmani conquistano la Palestina e, due anni dopo, Gerusalemme, gli ebrei – che avevano sofferto moltissimo sotto il dominio bizantino – salutano con un senso di sollievo i conquistatori arabi: possono così tornare a Gerusalemme e insediarsi nel quartiere a ridosso del Kotel Hamaaravi (il muro di cinta occidentale del Tempio, che i non ebrei chiamano “Muro del Pianto”) che diventerà poi il quartiere ebraico della Città Vecchia. Nonostante ciò verranno comunque trattati come cittadini inferiori agli islamici e, come tali, sottoposti alla dhimma dal momento della conquista sino a tutto il periodo dell’Impero ottomano.
L’esistenza ebraica, sotto il dominio islamico, oscillerà infatti tra tolleranza e discriminazione. C’è da dire che l’islam, per vari secoli, non è sembrato interessato a Gerusalemme. Questo nonostante nel 691 d. C. il califfo Abd al-Malik avesse fatto costruire la Cupola della Roccia proprio nell’area su cui erano stati eretti il Primo e il Secondo Tempio. Scopo del califfo non era tuttavia quello di rendere Gerusalemme la terza città santa per l’islam, ma semplicemente di divergere il pellegrinaggio dalla Mecca (occupata in quel periodo dal ribelle ‘Abdallah b. al-Zubayr) verso Al-Quds, come gli islamici chiamano Gerusalemme. La moschea di al-Aqsa viene invece costruita alcuni anni dopo da suo figlio al-Walid sulle rovine di una chiesa cristiana che si ergeva vicino alla cupola. Con l’avvento della dinastia abbaside, nel 750 d.C., la corte califfale è spostata da Damasco a Baghdad e Al-Quds torna a perdere la sua importanza strategico-politica per l’islam.
Che Gerusalemme non abbia rivestito, almeno sino a metà del 1200, una forte valenza religiosa per l’islam è anche dimostrato dalla propensione dei governanti islamici a cedere la città in cambio di un sostegno militare da parte degli Imperatori cristiani. Basti pensare a quando, nel pieno delle Crociate, alla fine del 1239, il sultano al-Nasir Dawud riesce a riconquistare Gerusalemme per poi cederla nuovamente ai Franchi in cambio di un sostegno militare contro suo cugino al-Salih. O ancora a quando, nel 1244, il sultano ayyubide al-Nasir Yusuf propone a Luigi IX di restituirgli la città se i Crociati lo avessero aiutato sul campo di battaglia contro i mamelucchi del Cairo. Proposta che viene rifiutata dal re franco, ma che non cambia la sostanza delle cose: Gerusalemme non era ancora sentita una città santa per l’islam, altrimenti non l’avrebbero mai barattata in cambio di semplici aiuti militari.
Da quel momento a Gerusalemme comincia la dominazione mamelucca e anche in questo caso, così come nel passato, nessun governante islamico sceglierà Gerusalemme/Al-Quds quale capitale del califfato o di un qualsiasi stato islamico. D’altra parte sono noti gli scritti, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, del giurista islamico Taqi al_Din ibn-Taymiyya secondo cui “la roccia di Gerusalemme su cui è stata costruita la Cupola della Roccia altro non è che una qibla mansukha, ovvero una direzione di preghiera che è stata annullata e la cui santità è stata dunque revocata”. Allo stesso modo, la tradizione che vede Maometto ascendere al cielo partendo da Gerusalemme pare essere inficiata per lo meno da un errore geografico. Il Corano non cita mai espressamente Gerusalemme e studiosi come Ahmad Muhammed Arafa sono propensi a ritenere che il luogo da cui il Profeta è partito per la sua ascensione in cielo fosse un altro. Nel Corano si legge: Gloria a Colui che rapì di notte il Suo servo dalla Moschea Santa alla Moschea Lontana, di cui abbiamo benedetto i dintorni, per mostrargli alcuni dei Nostri Segni (Corano XVII, 1) e per secoli la Cupola della Roccia – eretta accanto alla moschea di al-Aqsa – è stata identificata come la “moschea lontana” per via della sua vicinanza alla moschea di al-Aqsa. Infatti in arabo il termine al-Aqsa è una forma di superlativo che significa “la più distante”. Ma di fatto il luogo al quale, secondo la tradizione islamica, viene trasportato il Profeta era una moschea e non un luogo sul quale sarebbe stata costruita in seguito una moschea. E la moschea di al-Aqsa verrà costruita soltanto nell’VIII secolo d.C. Altri studiosi, come ad esempio Hasson, affermano che i primi esegeti del Corano facessero riferimento a una moschea celeste: l’identificazione della moschea al-Aqsa di Gerusalemme sarebbe dunque una recente scelta politica, per nulla ricollegabile alla fede. Non irrilevante, a questo proposito, risulta il fatto che il nesso tra Gerusalemme e il racconto coranico del “viaggio notturno” di Maometto, nasca soltanto a partire dal 1035 d.C., quindi quattrocento anni dopo la fondazione della moschea stessa. D’altra parte, come s’è detto, il Corano non cita mai espressamente Gerusalemme, né lo fanno i primi hadith, non per niente sino al X secolo i musulmani hanno chiamato la città Bayt al-makdis, dall’aramaico Bîth makde’shȃ, città del Tempio. Lo stesso termine Al-Quds – che molti erroneamente traducono “la santa” – deriva in realtà dall’ebraico ‘ir hakkodesh e significa “città del santuario”. Alla città di Gerusalemme l’islam non ha infatti mai conferito lo status di haram, luogo santo, che è unicamente conferito alla Mecca e a Medina.
Per decodificare la pandemia da Covid-19, il rabbino Amnon Yitzhak aveva proposto di trattarla come un segno degli ultimi giorni, spiegando che il Messia non sarebbe venuto finché non fosse stato abbattuto l’impero del male che stava governando il mondo intero. Per il noto predicatore le misure di restrizione imposte alle persone durante la crisi del coronavirus erano da ricondursi a decisioni di potenze malvagie. Le decisioni del governo, come l’allontanamento sociale, le chiusure, le norme igieniche, vennero definite come leggi antiliberali e interpretate in termini di esegesi escatologica: il Messia stava per giungere.
Non intendo ovviamente dire che il risultato dell’ultima tornata elettorale in Israele possa essere letto soltanto alla luce del voto dei coloni religiosi o della pandemia, per certo si colloca all’interno di un movimento transnazionale più ampio. Non va neppure dimenticato che queste elezioni hanno avuto luogo in un periodo storico caratterizzato da una forte recrudescenza di attentati terroristici palestinesi che, da sempre, sospingono gli elettori verso le destre, ritenute in grado di offrire maggiore sicurezza. Tuttavia non possiamo neppure trascurare il ruolo svolto dal complottismo e dalle fake news che avevano ottenuto tanta risonanza anche in Israele. Un errore grave, di cui gli israeliani hanno preso coscienza subito dopo la formazione del nuovo governo, tanto che per ben 38 settimane, folle oceaniche sventolanti le bandiere azzurre e bianche con il Maghen David al centro si sono riversate in piazza ogni sera per le strade di Tel Aviv, di Gerusalemme, di Haifa e, al grido di “dittatore”, hanno denunciato come le riforme volute dal nuovo governo stessero minacciando la democrazia israeliana e segnando una crescente tendenza autoritaria. Ancora pochi giorni fa migliaia di israeliani, nonostante i continui razzi sparati da Hamas, sono tornati in piazza indirizzando i loro cori a Netanyahu e gridando: “Adesso vai in prigione”.
Pertanto se il problema per i palestinesi della Striscia fosse stato Netanyahu, ad Hamas sarebbe stato sufficiente attendere. In realtà qualcos’altro stava accadendo. Nell’ottobre 2023 Israele stava per siglare uno storico accordo di pace con l’Arabia Saudita. Per farlo, i sauditi avevano richiesto anche significative concessioni per i palestinesi. Ovviamente una situazione di questo genere, foriera di una pacificazione dell’area e, potenzialmente, favorevole a un ritorno sulla scena politica dell’Autorità palestinese di Abu Mazen non poteva essere accettata dalla strategia jihadista di Hamas. Così, la mattina del 7 ottobre, i miliziani di Hamas hanno optato per la strage più cruenta mai compiuta, potendo beneficiare di maggiori possibilità di spostamento tra la Striscia e Israele. Questo grazie a quello che era stato un consistente programma civile ed economico per Gaza da parte del precedente governo israeliano Bennett-Lapid. Infatti quel programma aveva notevolmente aumentato il numero di permessi di lavoro per i palestinesi di Gaza, che potevano così recarsi in Israele dove il salario giornaliero di un lavoratore è sufficiente a sostenere altre dieci persone e in un territorio impoverito con un tasso di disoccupazione di circa il 50 per cento, i permessi di lavoro in Israele stavano cominciando a migliorare la vita dei palestinesi della Striscia e a stabilizzarne l’economia. Il programma aveva introdotto anche incentivi economici per Hamas, se avesse mantenuto la pace: condurre attacchi avrebbe potuto comportare restrizioni immediate sui permessi e chiusure dei valichi di frontiera. Proprio quello che desiderava Hamas: il caos e la guerra. Una guerra deliberatamente scatenata contro i bambini, i giovani, le famiglie e gli anziani in Israele la cui unica colpa era quella di essere ebrei e che sta continuando a Gaza, mietendo vittime tra i bambini, le donne e gli anziani cui Hamas ha impedito di evacuare per evitare di morire sotto i bombardamenti israeliani.
Incredibile che soltanto pochissimi intellettuali, in occidente, si siano scandalizzati di fronte a un gruppo terroristico che non si fa scrupolo nel dichiarare di voler continuare a compiere altri attentati, come pochi giorni fa ha promesso un alto funzionario di Hamas – Razi Hamed – che in un’intervista riportata anche da Repubblica ha affermato: “Ripeteremo le azioni del 7 ottobre finché Israele non sarà distrutto”. Mentre Taher El-Nounou, consigliere di Hamas per i media, ha dichiarato al Times: “Spero che lo stato di guerra con Israele diventi permanente su tutti i confini e che il mondo arabo si schieri con noi”.
Gli orribili omicidi, torture, stupri, profanazioni di corpi e rapimenti di civili hanno rivelato la strategia di Hamas, così come quella di coloro che hanno celebrato, celebrano e giustificano a vario titolo il massacro nelle piazze, nelle università e nei salotti televisivi di mezzo mondo. Basti ricordare i cortei del 21 ottobre a Milano durante i quali venivano scanditi i cori: “Apriteci i confini, così possiamo uccidere gli ebrei” o l’assalto all’aereo proveniente da Tel Aviv e atterrato in Daghestan (Russia) del 29 ottobre. La cattiva informazione, le astute omissioni, il desiderio di sentirsi parte di un gruppo, un’immigrazione incontrollata e non integrata hanno portato in meno di un mese al triplicarsi degli atti di violenza antisemita in Austria, Germania e Regno Unito, come anche e soprattutto nelle università e nelle scuole americane. Non scandalizziamoci: è necessario studiare e formare generazioni di insegnanti, giornalisti, opinionisti consapevoli. Non ci si può nascondere dietro l’antisionismo per mascherare odio o ignoranza. Netanyahu si può criticare? Si deve. Ma il movimento di Hamas va fermato, a meno di voler essere complici. Perché è vero che la situazione israelo-palestinese da sempre provoca animosità, ma difficilmente ci si sofferma a pensare che i costi della non pace vengono pagati da entrambe le parti. Migliaia di persone stanno morendo a Gaza: intere famiglie sono state spazzate via. Gli attacchi aerei israeliani stanno riducendo i quartieri palestinesi a distese di macerie, ma per Hamas questo è un prezzo equo da pagare per la distruzione d’Israele. Siamo davvero certi che questo prezzo il popolo palestinese lo voglia pagare?
Quanto a me, ai tanti che me lo chiedono, non posso che ribadire quanto ho scritto pochi giorni fa: per certo non voglio la cancellazione del popolo palestinese, ma non voglio neppure la cancellazione del popolo d’Israele. Vorrei la fine del regime di Hamas e un futuro sicuro e di pace per palestinesi e israeliani. Mi piacerebbe che ci lavorassimo tutti insieme.
Daniela Santus è professoressa associata del Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Culture moderne dell’Università di Torino
(pubblicato su Il Foglio)