Chi pensa che l’Isis sia solo un ricordo si sbaglia. Le bandiere nere del Califfato sventolano ancora, più o meno liberamente, in molte parti del Medioriente: Iraq, Turchia, Siria, e adesso anche a Gaza. La radicalizzazione della lotta al nemico “giudeo” si è trasformata in un processo che ha avvicinato Hamas agli orridi turbanti sciiti di Teheran, ma anche agli eredi di Abu Bakr al Baghdadi, ma questa non è la sola ragione per la quale – oggi – il migliore amico del Kurdistan è Israele. Il popolo curdo è da secoli in cerca di una patria, ma viene combattuto ferocemente dagli Stati confinanti, a cominciare dalla Turchia.
La tenacia dei peshmerga – i valorosi soldati curdi – è simile a quella dei soldati israeliani, ma non è nemmeno per questo, a ben guardare, che Israele resta il loro più solido alleato. Non è la prima volta che Israele fa scelte in solitudine e spesso apparentemente di retroguardia. Sostenne fino all’ultimo il Sudafrica dell’Apartheid e ha difeso oltre il dovuto Hosni Mubarak. Non per simpatia ideologica ma perché il primo aveva aiutato gli israeliani a diventare una piccola potenza nucleare e il secondo garantiva un’alleanza strategica per la sicurezza d’Israele.
(un gruppo di peshmerga curdi)
I peshmerga sono stati i primi a resistere e fermare l’ondata dell’Isis, facendolo per molto tempo e – soprattutto – facendolo da soli. Come ha ben sottolineato Ugo Tramballi sul Sole 24Ore, “a prezzo dell’impopolarità internazionale, le scelte sono sempre state dettate dalla Realpolitik, non dai principi democratici della società israeliana. Il sostegno ai curdi potrebbe sfuggire a questa regola: i confini di un improbabile Stato curdo sarebbero lontani da quelli dello Stato ebraico. Invece no, è ancora realpolitik.
Le aspirazioni d’indipendenza o di autonomia dei curdi, il massimalismo autolesionista in politica che assomiglia a quello dei palestinesi ma la determinazione e la compattezza delle loro milizie in combattimento, sono una garanzia per Israele: la convinzione cioè che i curdi saranno un importante elemento di disturbo fra Turchia, Siria, Iraq e Iran. In quella regione le cose non sono andate come prevedevano gli israeliani. “La Siria non sarà più quella che abbiamo conosciuto fino ad ora”, mi disse a Gerusalemme una fonte dell’intelligence israeliana, un anno dopo l’inizio della guerra civile. “Il suo territorio sarà smembrato e diviso in cantoni”. La Siria, in sostanza, non era più percepita come la minaccia che era stata nei 60 anni precedenti. La nuova declinazione dei nemici in base alla pericolosità, era aperta dall’Iran. Seguivano l’Hezbollah libanese e Hamas. Solo a quel punto veniva “l’arcipelago islamista”.
E Tramballi ha ragione anche quando sostiene che Isis e al-Qaeda non erano percepiti come una minaccia temporalmente visibile. “Anzi, erano un’opportunità. Fra Israele e loro si creò una collaborazione implicita e mai definita. Arrivati sul Golan siriano, gli islamisti non avevano mai sparato verso Israele”. Raramente quell’“arcipelago” aveva minacciato di conquistare Gerusalemme o di “ributtare gli ebrei a mare”. Le loro priorità erano gli sciiti iraniani e libanesi, la conquista dei luoghi santi dell’Islam e l’eliminazione della casa reale degli al-Saud. Perfino la riconquista della Spagna moresca veniva prima della causa palestinese.
Ma oggi lo scenario in parte è già cambiato e molto potrebbe ancora cambiare. L’analista israeliano Ben Caspit la vede così: “Questa volta ci sarà una Siria connessa all’Iraq che sarà connesso all’Iran ed entrambi saranno connessi al Libano di Hassan Nasrallah, il segretario generale di Hezbollah. Se in passato il dittatore siriano era indipendente ed era impossibile per lui affrontare da solo Israele, presto potremmo scoprire che la Siria à diventata un protettorato iraniano”.
Per tutti questi motivi bisogna essere al fianco dei curdi, oggi più che mai. La crisi internazionale e l’instabilità dei Paesi del Medio Oriente rischiano di risvegliare le cellule dormienti, quei terroristi pronti a colpire in nome dell’autoproclamato Califfato che dieci anni fa ormai seminò morte e terrore anche in Europa. E chi più di tutti ha contezza del pericolo alle porte è l’esercito peshmerga, forza militare del Kurdistan iracheno che da sempre combatte contro il terrorismo islamico.
(una soldatessa curda)
Al suo fianco, nell’addestramento e nella formazione militare, ci sono i soldati italiani della missione Prima Parthica, dal 2014 di stanza a Erbil, proprio nel cuore della regione autonoma irachena. «Abbiamo avuto un grande supporto da parte dell’esercito italiano nel combattere e vincere l’Isis – sono le parole diffuse dall’Ansa del ministro dei peshmerga, Shoresh Ismail, incontrando il comandante della missione, il colonnello Francesco Serafini -. Speriamo di poter diventare ancora più amici e continuare a lavorare tutti insieme». La collaborazione dei nostri militari è stata uno dei «sostegni più importanti che abbiamo ricevuto», ha evidenziato il ministro. «L’Italia è stata tra i primi ad aiutare il nostro popolo e il nostro esercito nel combattere l’Isis – ha continuato Ismail durante un incontro con i giornalisti italiani -. Un’intesa che continua ancora oggi e che ha portato al miglioramento delle competenze professionali dei nostri militari. Senza questo contributo non saremmo mai riusciti a raggiungere certi standard». Per questo, di fronte alle ventilate ipotesi di un ritiro delle forze militari della coalizione, il titolare della Difesa curdo esprime la propria contrarietà. «Se il contingente dovesse mai andar via – evidenzia – si aprirebbe uno spazio gigantesco di grande disagio e tantissimi problemi», legati anche alla possibilità, neanche tanto recondita, del ritorno del terrorismo islamico. «I peshmerga – ha continuato – sostengono la permanenza della coalizione, anche con le truppe statunitensi». A preoccupare maggiormente il governo curdo sono alcune zone dell’area, che vanno dal sud est del Kurdistan iracheno fino al confine con la Siria, particolarmente instabile per l’assenza di truppe militari anti-Isis. «Per questo – ha sottolineato il ministro – stiamo realizzando due brigate comuni con militari iracheni e peshmerga che operino in quell’area di forte instabilità e dove l’Isis si prepara a rialzare la testa».
A questo si aggiunge, inevitabilmente, la crisi mediorientale e la tensione tra Iran e Israele. Droni e missili solcano il cielo iracheno, in quello scambio di accuse che vedono sul piede di guerra Teheran e Tel Aviv. «L’auspicio – ha sottolineato il ministro dei peshmerga – è che la situazione in Medio Oriente possa risolversi nel più breve tempo possibile. Come popolo curdo abbiamo sempre cercato la via della pace, nonostante siamo stati vittima di genocidio e di violenze atroci. Personalmente spero che si sia finalmente capito che il sangue non risolve nulla. Il Kurdistan da sempre è un luogo di pace e di vita, di convivenza tra popoli e religioni diverse. Prima del 1948 qui vivevano anche molti israeliani, senza alcun problema». «La guerra è una sconfitta per tutti», le ultime parole del ministro salutando la delegazione italiana di ritorno a Camp Singara, nella base di Erbil.
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