di Nello Del Gatto*
Se c’è una guerra che Israele ha sicuramente perso già dalla fine di ottobre, è quella mediatica. Il
paese ebraico infatti, anche per proprie scelte, non ha capitalizzato mediaticamente il vantaggio
che aveva dopo il massacro del sette ottobre.
Ha pesato molto la scelta di non mostrare le immagini degli scempi commessi da Hamas, dai suoi miliziani, ma anche dai civili di Gaza che, in più di un video di quei terribili momenti (che hanno cambiato la storia di Israele come quella di tutti coloro che vivono qui, pur non essendo né ebrei né israeliani) si sono visti gioire, festeggiare, incitare a compiere altri atti simili. Come pure di affidare al portavoce dell’esercito, le uniche informazioni provenienti dalla Striscia.
E’ stata la sublimazione dell’orrore. Eppure i vertici di Gerusalemme hanno deciso di tenerla
privata, riservata. Scelta comprensibile e condivisibile, soprattutto in considerazione del dolore dei
familiari di ostaggi e vittime del massacro.
L’errore di fondo sta nel fatto che mentre Israele ha agito con quella pietas propria di chi rispetta il
valore della vita, ha sottovalutato una cosa: dall’altro lato non aveva uomini, non c’erano persone
che agivano come uomini. Eppure la storia avrebbe dovuto insegnare qualcosa.
Invece, chi stava dall’altro lato, ha cavalcato notizie false, ha messo su una potente armata di guerra
mediatica che ha spinto all’angolo Israele, sfruttando i tam tam spesso di Pallywood,
dell’antisemitismo, dell’atavico odio verso Israele, di una causa palestinese della quale non si
conosce la storia.
L’ignoranza, infatti, è un altro fattore che ha contribuito a far perdere la guerra a Israele. Da
decenni Gerusalemme combatte, anche se spesso con poco impegno coloro che
mostrano mappe palesemente fasulle sulla presenza di ebrei nel luogo, o che non conoscono le
origini neanche del nome Palestina, o dello stesso conflitto. SI va per pregiudizi: lo dice Israele, lo
dicono gli ebrei, dunque è un falso. Basta vedere le manifestazioni universitarie in Italia e all’estero. Nel
nostro Paese ho chiesto più volte in trasmissioni e a diretti interessati se, visto che la conferenza
dei rettori ha dieci accordi con le università palestinesi, dopo il sette ottobre si fosse scesi in piazza
per chiedere che questi accordi venissero cancellati, oppure lo si facesse con l’Iran, con la Cina,
eccetera. Vedere che questi manifestanti innalzano i vessilli di Hamas o di Hezbollah, che parlano di
diritti delle donne anche se nei luoghi che vorrebbero proteggere a scapito di Israele la donna è
considerata un nulla, dimostrano proprio questo.
La colpa di tutto ciò è anche di una certa politica, soprattutto di certa sinistra che ha abbracciato
senza se e senza ma la causa palestinese, parlando di resistenza laddove è terrorismo, facendo
assurgere a oracoli anche chi dovrebbe ricoprire ruoli istituzionali basati sulla neutralità e che
invece fa fatica pure a dichiarare Hamas gruppo terrorista. Ogni riferimento alla “special rapporteur”
dell’Onu è voluto. Dopotutto, non sarà un caso se i filoputiniani siano anche troppo spesso
filopalestinesi, figli di una concezione antioccidentale nella quale il presidente russo è ancora il
capo dell’Urss, ultimo baluardo all’occidentalizzazione del mondo.
All’interno di questa visione anti israeliana ci sono poi i più raffinati. Come esistono quelli che
dichiarano che non hanno problemi con gli omosessuali tanto è vero che hanno l’amico gay, sono
sempre di più quelli che dicono di non essere antisemiti ma antisionisti, non leggendo neanche il
vocabolario, dove avrebbero scoperto che essendo il sionismo il movimento che ha auspicato lo
Stato di Israele, essere “anti” significa non volerlo (e pertanto essere antisemita).
Dal Giordano al mare. Come giornalista a Gerusalemme, anch’io sono in numerose chat whatsapp e telegram dove si diffondono e condividono informazioni. In quelle vicine a Israele, non ci sono mai immagini violente, neanche i video che i terroristi pubblicano di tanto in tanto, degli ostaggi a Gaza che,
sotto torture e pressioni inimmaginabili, raccontano e servono per fare pressioni su Israele. L’ignoranza porta a fare pressioni sfruttando anche le manifestazioni democratiche che si vedono
da sempre nel Paese: manifestazioni che dovrebbero essere l’apoteosi della democrazia, del vivere comune e che invece – dal momento che gli oppositori non sanno neanche cosa sia la democrazia –
diventano motivo di imbarazzo, e prestano il fianco a chi dirà: “Vedete: anche loro sono contro lo stesso governo”.
(Daniel Hagari)
Senza contare la questione linguistica. Per i media propal, partendo da Al Jazeera, a Gaza non ci
sono ostaggi ma prigionieri, i morti sono martiri, gli ostaggi sono tutti militari e gli
israeliani tutti settlers o occupanti. Così come children sono tutti i minori di 18 anni. Se a mia figlia
di 17 anni, che ha ottima padronanza dell’inglese, la presento come “my child”, credo come
minimo mi mandi a quel paese. Linguaggio adottato anche nel nostro Paese.
Le immagini con l’intelligenza artificiale, soprattutto di bambini, sono numerose. La sola AFP ha
messo su un sito di debunking contro le fake news, scoprendo che molte immagini o notizie sono
prese da Yemen, Siria e altri conflitti. Ma nessun altro media internazionale lo ha fatto. Un timido
tentativo è stato avanzato dalla BBC che prima ha denunciato che un video nel quale si vedeva una
città in fiamme etichettata come Tel Aviv, a seguito dell’attacco iraniano, in realtà era un incendio
in una città cilena. E poi ha intervistato la presidente del tribunale dell’Aja che a gennaio ha
emesso il primo verdetto nella causa intentata dal Sudafrica contro Israele, la quale ha spiegato
che “contrariamente a quanto riportato da alcune fonti, la Corte non si è pronunciata sulla
plausibilità dell’accusa di genocidio, ma ha sottolineato nella sua ordinanza che esiste il rischio di
un danno irreparabile al diritto dei palestinesi di essere protetti dal genocidio”. Che è cosa ben
diversa dal continuare a chiamare Israele stato genocida, come si legge.
Nell’era dei social media, la verità è quella che viene condivisa, che appare verosimile anche se
falsa. L’errore di Israele è stato, come dicevo, lasciare la comunicazione tutta all’Esercito, volendo
tenere un profilo alto anche contro chi cammina rasente il pavimento. Non è necessario scendere
al loro livello, ma bisogna adottare altri strumenti. Visto che sul campo della compartecipazione del dolore la partita è persa, nonostante si sia subita una delle più vili e crudeli aggressioni, era necessaria un’azione di lobbying, mediatica al di fuori di canali soliti. Non una “operazione simpatia”, ma una
“operazione verità”. Poi è chiaro, nei confronti del pregiudizio e dell’ignoranza, si può poco.
*Corrispondente de “La Stampa” da Gerusalemme – Articolo esclusivo per Italia Israele Today
Serve un grande impegno di molto e coordinato , magari usufruendo di investimenti ad hoc. Viceversa la perenne lotta perla corretta informazione ci vedrà spesso soccombere secondo una consolidata strategia gorbellsiana
Very interesting info!Perfect just what I was searching for!Raise your business