Quei cercapersone trasformati in bombe

Nel pomeriggio di martedì 17 settembre centinaia di cercapersone in possesso di miliziani e membri di Hezbollah sono esplosi simultaneamente tra Libano e Siria: cos’è successo? E se dietro questa operazione c’è Israele, come sospetta il gruppo estremista, come ha fatto a colpire così?
Illuminante l’articolo firmato sul Corriere della Sera da Guido Olimpio, ma ricordiamo che siamo ancora nel campo delle ipotesi:

Negli ultimi mesi Israele ha condotto una campagna sistematica di eliminazione di ufficiali della milizia sciita. E alcuni dei dirigenti più importanti, come Fuad Shukr, sono stati uccisi perché le comunicazioni erano state violate. Il movimento aveva raccomandato di non usare più i cellulari, inoltre aveva sollecitato alla massima prudenza nell’uso di materiale elettronico nel timore che potesse lasciare traccia poi sfruttata dall’intelligence avversaria. E, secondo i media arabi, sarebbero stati distribuiti dei beeper per facilitare i contatti. Se sono vere le ricostruzioni di queste ore concitate vuol dire che il Mossad ha scoperto il fornitore degli apparati, li ha in qualche modo tramutati in ordigni. Prima della consegna? All’estero? O quando sono arrivati a Beirut? Ha «lavorato» sulle batterie? Ha inserito microcariche?
L’emittente Al Jazeera ipotizza (come scenario) che i cercapersone siano arrivati dall’Iran, il che porterebbe a pensare che gli israeliani abbiano agito all’interno della Repubblica islamica. Sarebbe un colpo ancora più micidiale, anche sul piano propagandistico. Sempre la tv qatarina è convinta che vi sia stato il ruolo di “un paese terzo”, indispensabile per sabotare il “ricevitore”.

Chiusa la prima fase (la più complessa) è passato all’attacco massiccio, dalle ripercussioni pesanti. Compreso lo scenario di un conflitto generale. Mentre la fazione, non escludendo che possano esserci altre sorprese, sarà costretta a trovare alternative per fronteggiare l’emergenza.

Qualche osservatore ha collegato l’operazione del Mossad ad una notizia uscita solo un paio d’ore prima. Lo Shin Bet, i servizi interni, hanno annunciato di aver sventato un attentato contro un ex alto esponente della Difesa – forse il generale Kochavi – che doveva essere investito dalla deflagrazione di una mina innescata sempre da remoto. Progetto attribuito all’Hezbollah che aveva testato il modus operandi nel settembre di un anno fa con un modus operandi simile. Ma forse la rivelazione, oltre a sottolineare la minaccia, è parte della guerra psicologica in un contrasto dove vale tutto.

In passato gli israeliani e i guerriglieri filoiraniani hanno ingaggiato un duello che ha avuto come arena proprio le comunicazioni ed equipaggiamenti spionistici. Le forze speciali IDF hanno spesso protetto con cariche esplosive i sensori e le piccole telecamere piazzate in territorio libanese. In altre occasioni hanno modificato dei droni «fatti arrivare» all’Hezbollah e poi ne hanno provocato la detonazione. A loro volta i miliziani hanno creato un’unità con il compito di inserirsi nel network telefonico del nemico.

L’azione di oggi ricorda altri episodi, avvenuti negli anni ’70 e ’90. Sempre il Mossad aveva assassinato un esponente palestinese a Parigi trasformando il telefono della sua abitazione in una trappola. Lo avevano riempito di plastico, per poi trasmettere l’impulso decisivo quando il bersaglio aveva risposto ad una chiamata. Un attacco legato alla vendetta per il massacro ai Giochi Olimpici di Monaco di Baviera. Ancora più sofisticato l’omicidio mirato di Yahya Ayyash, alias l’ingegnere, il responsabile di numerosi attentati kamikaze e preparatore di bombe. Lo Shin Bet riuscì a inserire, nel gennaio 1996, una micro-carica nel cellulare con la complicità di un «aiutante».

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