7 ottobre nella città della strage

Nel primo anniversario del massacro del 7 ottobre 2023 pubblichiamo alcuni versi scelti, tratti dal poema di Bialik “Nella città della strage” scritto nel 1904. La città è Kishnev, in Bessarabia, dove nei giorni 19 e 20 aprile 1903 infuriò un efferato spietato pogrom e dove Bialik fu inviato a raccogliere documentazioni sugli avvenimenti: 49 ebrei furono uccisi, 92 furono gravemente feriti, numerose donne ebree furono violentate, oltre 500 furono lievemente feriti.

Un anno fa il pogrom del 7 ottobre ha colpito la Terra di Israele in un modo, se possibile, persino più virulento di quello descritto da Bialik; ancora una volta, persone inermi, uomini, donne, anziani e perfino bambini, sono stati assassinati, stuprati, feriti, torturati, rapiti e alcuni di loro sono ancora nelle mani di Hamas. Ma la situazione degli ebrei è cambiata: a Kishnev gli ebrei sono braccati, mendichi, impotenti, privi di speranza; in Israele oggi il popolo ebraico possiede capacità, strumenti e mezzi per difendersi.

Dedichiamo questi versi terribili, colmi di dolore, di amarezza, di vergogna e di rabbia, ai soldati combattenti dell’Esercito Israeliano, giovani donne e giovani uomini che eroicamente e con coraggio combattono per la sopravvivenza del popolo ebraico.

Seguono stralci da “Nella Città della Strage”, tratto da Bialik, Antologia della Rinascita Ebraica, a cura di Antonio Belli, Centro Studi per i Popoli Extra-europei dell’Università di Pavia, Edizioni di Comunità, Milano, 1966.

NELLA CITTÀ DELLA STRAGE

Levati, e va nella Città della Strage. Recati nei cortili, e vedrai coi tuoi occhi, toccherai con la mano sopra le siepi, i muri, gli alberi, le pietre sangue coagulato, cervella aggrumolate: quelle dei massacrati.

Traverserai muri sventrati, passerai attraverso macerie, i forni squarciati, dove l’ascia fe’ vuoto, fe’ breccia, e buchi e fori fece, simili a piaghe beanti, nere, e incancrenate. Passerai affondando tra le piume, inciampando nei mucchi, nei detriti, cose spezzate, vacillando tra rottami di pergamene e libri.

Le acacie, più lontano a te si mostreranno parate di una festa di piume e di fiori ed esalanti un odore di sangue. Le tue narici respireran con forza lo strano odore d’incendio di questa primavera tenera; e intanto con le frecce d’oro dei raggi il sol ti ferirà radioso; e intanto da ogni briciolo di vetro sprizzeranno gioiosi scintillii, quasi una beffa per la tua sventura. Perché Dio ha inviato la primavera e l’assassino insieme: e brillò il sole, e l’acacia fiorì, sgozzò lo sgozzatore.

Ed entrerai in questo cortile, dove furono insieme massacrati un giudeo e il suo cane. Una scure medesima li uccise, nel medesimo sterco fûr gettati: nel miscuglio del lor sangue impastato ora grufola il porco. Domani al fiume li trarrà la pioggia, o in uno scolo, o in una chiusa, ovvero un cardo secco la sua sete vi spegnerà. Poi tornerà la pace come se nulla fosse capitato. E salirai alle mansarde cupe, e là starai nel buio. Nel buio sta librata ancor l’angoscia della morte. Fioriscon da ogni buco occhi: ti fissan silenziosamente. Sono gli occhi dei martiri aggroppati in quell’angolo, sotto il basso palco, dove l’arma li ha spenti. Qui ritornano a suggellar col loro muto sguardo il dolor di una morte che fu inutile, l’inutile miseria della vita.

Striscian, tremanti, curvi, nel loro carcere. Muti i lor occhi chiedono: Perché? E chi, chi può il silenzio sopportare di quegli occhi, se non il muto Iddio? E tu leverai gli occhi verso il tetto. Le tegole saranno tutte attente.

Chiederai alle ragne sopra i muri,

testimoni oculari e palpitanti:

ed esse ti diranno quel che avvenne.

La storia ti diran del ventre aperto

e imbottito di piume;

la storia delle nari e dei cavicchi;

la storia delle teste e dei martelli;

quella degli impiccati e delle travi;

e quella del poppante ancor succhiante

al seno ghiaccio della madre uccisa;

e quella del bambino fatto a pezzi

che spirando gridava: Mamma! – questi

sono i suoi occhi –, ed altre storie ancora,

ed altre, orrende, da corrodere

il tuo cervello e l’anima per sempre.

Tu però, soffocando nella strozza,

prima che esploda, l’urlo, sarai forte

ed uscirai. Vedi, la terra pullula

come sempre di vita, e il sol l’ingravida

della luce infinita dei suoi raggi.

Poi scenderai nelle cantine oscure

dove insozzate fûr le caste figlie

della tua gente. Sette incirconcisi

per ognuna di esse. Sotto gli occhi

della madre la figlia, e della figlia

sotto gli occhi la madre, prima, dopo

e durante l’eccidio. Con la mano

tu stesso tocca il lino fatto immondo,

guarda il cuscino: ancor lordo di sangue.

È là che belve dalla faccia d’uomo

sfogaron la lor foia, ancor grondando

l’arme di sangue, stretta nella mano.

Piangi, figliol d’Adamo? No, non piangere,

digrigna i denti, ed urla!

Appiè della città discendi, ad un verziere,

e ad un grande edificio che gli è presso:

la casa della strage.

Come stormo di gufi o di vampiri, rabidi

di sangue e stanchi, sulla preda giacciono,

giaccion sul pavimento, là, gettate

le ruote. Sono intrisi ancor di sanie

i mozzi, di materia cerebrale.

I raggi sembran dita tese a uccidere.

Di sera, quando il sole in occidente

scende tra nembi fiammei di sangue,

spingi la porta ed entra.

Il terrore t’inghiotte. È cupo. Aleggia

dintorno. Giù dai muri. Nel silenzio.

Orrore! orrore! Ancor sotto le ruote,

dove palpita carne sanguinante,

membra mutile spirano. È nell’aria.

… Una Shechina nera sfinita dal soffrire

si agita, vuole piangere, vuol gemere,

ma i singhiozzi la soffocano.

E allor, spiegando l’ali sopra l’ombre dei Martiri,

si nasconde la faccia,

e dissimula il pianto, lacrima senza gemere …

Esci fuor delle mura, recati al cimitero.

Nessun ti veda entrarvi. Resta, solo.

Le tombe troverai colà dei Martiri:

bambini, uomini, vecchi. Sta in silenzio

in mezzo a tanti tumuli di terra

freschi, di ieri. Là, il tuo cuore sciogliersi

vorrà per la vergogna e pel dolore,

ma Io lo seccherò, sì che non versi

una lacrima sola. Non è l’ora

del pianto, …

Per tali morti v’è un riscatto? E quale?

E tu, Figlio dell’Uomo, tu che fai

ancor costì? Va’, fuggi nel deserto!

Fuggi, e là reca della tua tristezza

la coppa colma; là fa in mille brani

l’anima, e il cuore spezza in preda a un’ira

disperata, impotente e versa il pianto!

Imbevine le arene e rocce, lancia,

perché si sperda dentro alla tempesta,

lancia il tuo amaro, inutile ruggito!

(Ringraziamento a: NES Noi Ebrei Socialisti – Gherush92 Comitato per i Diritti Umani)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna all'inizio