di Giuseppe Crimaldi*

E no, non si può dare sempre la colpa agli altri. Non si posso cercare sempre alibi, arrampicandosi sugli specchi dell’ideologia postcomunista, falso-pacifista e terzomondista. Quando si affronta la questione palestinese si è portati quasi inconsciamente a cedere al buonismo che non fa bene a nessuno: a cominciare dal popolo palestinese.

E invece questo è il mantra dei propal: e quando parlo dei propal non mi riferisco alle torme di angoscianti studenti universitari senza alcuna cultura o conoscenza, con le bandiere di Hamas e Hezbollah in mano. C’è stata (e purtroppo è dura a morire, in Italia, in Europa e nel mondo) una intellighenzia di scrittori, docenti, giornalisti, politologi e scrittori nati, cresciuti e imbevuti di malafede allo stato gassoso purissimo che avvelenano le coscienze e indottrinano le masse con menzogne ipocrite e facilmente screditabili (se solo i media non cadessero nelle loro trappole).

Gutta cavat lapidem, la goccia scava la pietra dicevano i romani: un ritornello, il loro, che finisce col convincere l’opinione pubblica. Ripetete una calunnia, fatela girare e dopo la decima persona che la ripeterà a pappagallo, essa diventerà una “verità”.

Ma la verità è altra. E spiega come i palestinesi sono i primi (ma non unici) responsabili del male che li affligge. Servirebbe un libro per articolare tutto ciò, ma tralasceremo gli errori e gli obbrobri commessi da certi Paesi colonialisti, a cominciare da Francia e Gran Bretagna, i quali tracciarono i confini di un Medio Oriente impossibile da pacificare se i suoi confini venivano disegnati con squadra e righello. E li daremo per scontati, come unica e sola attenuante per certi popoli lasciati marcire nel loro sottosviluppo.

Ma ciò detto, veniamo ai giorni nostri. I palestinesi per secoli, fino alla dominazione turca e ben prima che Israele nascesse come entità politica e di Stato, hanno felicemente sguazzato nella palude dell’inettitudine. Non hanno mai avuto alcuna mentalità imprenditoriale. Non si sono emancipati, come pure non senza fatica hanno fatto ex colonie franco-britanniche. Un bivacco esistenziale scandito da caffè e narghilè, con le donne relegate in casa a far figli, e nessuna personalità di spicco – né intellettuale, né imprenditoriale e tantomeno politica – capace di immaginare un futuro per le future generazioni. Dolcetti al miele, pistacchi e datteri: più di questo non sono riusciti a regalare all’umanità. E questo li ha resi deboli e indifesi, innanzitutto di fronte ai “fratelli” arabi. Proprio la grandissima maggioranza delle nazioni arabe ha deliberatamente usato i palestinesi, abbandonandoli al loro eterno sottosviluppo: ma di questo gli odiatori “intellettuali” antisionisti non fanno mai parola.

Tutti, ben prima che nascesse Israele, hanno succhiato il sangue dei palestinesi, i quali masochisticamente hanno continuato a piegare la schiena, a sottomettersi al sultano o al colonnello di turno. Mi verrebbe da dire, ma non lo dico, quasi senza alcuna dignità.

Sottosviluppati culturalmente e economicamente per loro scelta, e qui Israele non c’entra. Un’inettitudine vergognosa, aspettando che la grazia venisse giù dal cielo a salvarli, ad affrancarli da questo stato di coma profondo nel quale, tuttavia, sembravano vivere felici, tra un caffè e una fumata di narghilè. E veniamo ai tempi recenti. Storia nota tutti, tranne che ai maitres a pénser vetero e post-comunisti, vetero e post buonisti, vetero e post pacifisti. Il 14 agosto 2005 il governo israeliano dispose l’evacuazione della popolazione negli insediamenti israeliani dalla Striscia di Gaza e lo smantellamento delle colonie che vi erano state costruite (Piano di disimpegno unilaterale israeliano). Ma lasciarono ai palestinesi una Gaza che era un piccolo paradiso in terra: frutteti, serre, strade, ospedali e infrastrutture. Andarono via e donarono quel che avevano realizzato. Un regalo da centinaia di milioni di dollari. Si trattava solo di prendere in mano la situazione e programmare un futuro di vicinanza e amicizia con chi aveva fatto ciò che loro – per secoli – erano stati incapaci di costruire.

(Copyright Getty Images )

Invece no. La storia è nota, e sappiamo come siano andate le cose con Hamas. Ricoperti da miliardi di euro e dollari elargiti dal Qatar e persino dall’Unione Europea, i tagliagole di Anyiyeh e Sinwar (e con loro gli eterni sottomessi smidollati che si votarono al Jihad) hanno imbracciato il kalashnikov e nutrito i ragazzini di odio e violenza. Oggi arrivano le conseguenze. Inevitabili. E non produrranno più nemmeno i pistacchi e i fichi secchi per molto tempo. Per i palestinesi serve una guida illuminata, laica, capace di dialogare con i vicini e di affrancare questa popolazione dal medioevo in cui sprofonda sa almeno mille anni. Già, ma dove la trovano adesso?

Direttore di Italia Israele Today*

One thought on “Fenomenologia del fallimento palestinese

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