di Cristina Franco*
E’ sempre più evidente il fatto che ci siano due categorie di diritto internazionale: quello che vale per tutti i paesi del mondo e quello appositamente tailor made che si applica e la cui ottemperanza è richiesta solo a Israele.
Preliminarmente, pare curioso che si debba invocare il diritto internazionale rispetto ad Israele allorché questo si stia confrontando con un’organizzazione terroristica come Hamas, che disconosce e calpesta qualsiasi ipotesi di diritto, umanitario e internazionale, che massacra, tortura, umilia e sequestra civili innocenti, fra i quali anziani donne e bambini, civili di cui non solo accetta la sofferenza ma di cui cerca la sofferenza. Secondo l’ordinamento internazionale, chi compie simili barbarie potrebbe e dovrebbe essere incriminato e giudicato e condannato da qualsiasi tribunale penale nazionale.
E la questione del diritto internazionale non è di poco conto, a maggior ragione per un piccolo paese che vive di commercio e relazioni con altri paesi e rispetto al quale il marchio di “illegittimità” rispetto al diritto internazionale apre voragini nelle sue stesse chances di difesa e persino di esistenza. Questo è ben noto ai nemici di Israele ed è per questo che ogni loro sforzo di comunicazione è concentrato sulla bollatura di qualsiasi attività o aspetto della vita e delle relazioni di Israele come “illegittimi”. A questo scopo, con la complicità nemmeno tanto mascherata di numerosi attori internazionali, deformando il diritto internazionale esistente ne creano uno ad hoc applicabile solo a Israele. Gli esempi sono numerosi.
Il primo riguarda la “natura” delle risoluzioni ONU. Molti infatti sostengono che le risoluzioni ONU, a prescindere, quando si tratta di Israele, siano norme di diritto internazionale. Nessuno stato accetta peraltro che una risoluzione dell’Assemblea Generale Onu sia vincolante, purchè non si debba riferire a Israele. Quante volte abbiamo sentito slogans come “Israele ha violato o sta violando il diritto internazionale delle risoluzioni ONU”. Ma questa è un’affermazione priva di alcun fondamento proprio di diritto internazionale. Le risoluzioni dell’Assemblea sono dichiarazioni a valore politico, non creano in alcun modo diritto internazionale. I redattori della Carta istitutiva furono attenti ad evitare di attribuire a qualsiasi organismo Onu il potere di creare diritto internazionale. Ciò non ostante, da più parti si invoca la violazione delle risoluzioni Onu da parte di Israele come violazioni del diritto internazionale.
Il secondo esempio riguarda la natura delle linee di demarcazione armistiziali. Quando un paese firma un accordo di armistizio con altro o altri paesi con cui era in conflitto, questo accordo comprende la definizione delle cd. linee di demarcazione armistiziale. Linee che segnano il limite che gli eserciti non possono superare. Nel 1949 Israele ha firmato accordi armistiziali con i paesi arabi confinanti, i quali includevano le definizioni di linee di demarcazione armistiziale. C’è una clausola precisa in ognuno di questi accordi, espressamente richiesta dai paesi arabi e cioè che quelle linee fossero temporanee e non confini definitivi. La linea di demarcazione armistiziale fra Israele e Giordania, chiamata la linea verde, è pertanto da definirsi “temporanea”, come ai tempi voluto proprio dalla Giordania. Eppure, oggi quella linea armistiziale temporanea sembra divenuta, magicamente, secondo un non meglio precisato diritto internazionale, come un confine definitivo. Una metamorfosi che funziona solo quando può andare a danno di Israele.
Il terzo lampante esempio riguarda la questione dell’occupazione. L’occupazione è fenomeno disciplinato dalla legge sui conflitti armati e si configura quando uno stato occupa militarmente il “territorio sovrano” di un altro stato. Ora, l’affermazione per cui Israele occupi il territorio di uno “stato sovrano di Giudea e Samaria” od occupasse la Striscia di Gaza pare non plausibile sotto ogni profilo. Giudea e Samaria e Striscia di Gaza non appartengono alla sovranità di alcun altro stato o di alcun popolo. Prima del 1967 West Bank e Gaza erano sotto il controllo di Giordania ed Egitto. Oggi, né la Giordania né l’Egitto ne reclamano la sovranità. Hanno siglato accordi di pace con Israele in cui nessuna pretesa è avanzata verso West bank e Gaza. Pertanto, affermare che quei territori siano automaticamente divenuti “Territori Palestinesi Occupati” nel momento stesso in cui sono passati dal controllo di uno stato al controllo di altro stato pare davvero illogica e priva di ogni dì riferimento di diritto. Se Cisgiordania, Gerusalemme est e striscia di Gaza non sono mai stati “Territori palestinesi occupati” durante il controllo giordano o egiziano, non possono divenirlo solo quando il controllo passa ad Israele. Fra l’altro, con gli Accordi di Oslo, Israele controlla meno territorio in Cisgiordania di quanto ne controllasse la Giordania. Lo status legale non può essere diverso. Se la Giordania non occupava sino al 1967 territori palestinesi, dal 1967 non li può occupare Israele. Per Gaza il principio è ancora più lampante: Il diritto internazionale non può percorrere un binario diverso solo quando si usa in chiave anti Israele. Non può pertanto parlarsi di territori occupati ma soltanto, eventualmente, contesi. Tanto più che Israele è entrato in Giudea e Samaria in conseguenza di una guerra subita, una guerra difensiva e non di aggressione, portato da esigenza difensiva che è sempre stata perdurante, viste le continue aggressioni subite dai paesi arabi confinanti e dal terrorismo, e che permane ancora oggi, soprattutto dopo gli eventi del 7 ottobre scorso. E il diritto di autodifesa è espressamente previsto nell’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite. Eppure, se si guarda al testo della Risoluzione dell’Assemblea ONU del 2022 in cui si chiede alla ICJ un parere consultivo sugli effetti dell’illegalità dell’occupazione israeliana, si ripete la parola “occupazione” ben 32 volte (nella Risoluzione per il parere consultivo sul muro di protezione la parola era ripetuta oltre 130 volte), si da per scontato, con un pregiudizio evidente, che vi sia un’occupazione e che questa sia illegale. Ed ancora, poiché Israele non riconosce di occupare alcunchè, è illogico oltre che privo di fondamento giuridico, deliberare sul tema in assenza di un rappresentante di Israele o senza il contraddittorio con Israele. E’ piuttosto chiaro che il modo in cui sono state poste dai redattori le domande alla Corte mirano a ottenere una risposta che presuppone che vi sia un’occupazione e che sia illegale, forzando ogni principio di diritto internazionale e storico.
E peraltro, anche volendosi spingere a parlare di occupazione, l’occupazione è legale secondo diverse previsioni della legge dei conflitti armati. L’occupazione Usa del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale era perfettamente legittima, così come lo era l’occupazione alleata della Germania o l’occupazione americana dell’Iraq dopo la Guerra del Golfo. Nessuno ha mai ipotizzato diversamente.
Lo stesso Consiglio di Sicurezza Onu non ha mai definito come “illegale” l’occupazione israeliana. Ma accostata a Israele la parola “occupazione” acquisisce subito l’aggettivazione di “illegale”, secondo un diritto internazionale ad hoc che vale, appunto, solo per Israele.
Il quarto esempio è riferito all’accusa di “apartheid”. Un’accusa decisamente disturbante e di cui gli avversari sono perfettamente consapevoli. Dal momento in cui uno stato è marchiato con l’accusa di praticare l’apartheid, ogni suo comportamento diviene illegittimo ex se. Un esempio è il report di Amnesty sul “muro dell’apartheid”, ossia quello costruito fra Israele e la West Bank per proteggere il territorio (questo si) a sovranità israeliana e i suoi cittadini dai frequenti sanguinosi attentati terroristici susseguitisi nei decenni. Eppure nessun paese che abbia chiuso i suoi confini con protezioni, muri o altro si è mai visto accusare di apartheid.
Il quinto esempio riguarda la definizione di profugo o rifugiato palestinese. L’ONU ha due agenzie per i rifugiati, una per tutti i rifugiati del mondo e una riservata solo ai rifugiati palestinesi.
Le due agenzie per i rifugiati hanno, inoltre, definizioni diverse del concetto di rifugiato. La definizione operativa del termine “rifugiato palestinese” data dall’UNRWA ai fini della loro registrazione ha subito diverse evoluzioni nel corso degli anni. La definizione oggi viene usata per riferirsi a “persone che nel periodo compreso tra il 1° giugno 1946 e il 15 maggio 1948 avevano (anche solo) domicilio stabile in Palestina e che in seguito alla guerra del 1948 hanno perduto casa e mezzi di sussistenza”. Basta essersi trovati in Palestina in quei due anni per poter beneficiare dello status e della protezione di rifugiato. Lo status è ereditario (a differenza di quanto previsto per i profughi che ricadono sotto protezione UNCHR), si estende, cioè, a tutti i discendenti di rifugiati o sfollati palestinesi. Inoltre, i profughi palestinesi mantengono il loro status anche se hanno ottenuto una nuova cittadinanza, a differenza, ancora, dei profughi che ricadono sotto la definizione UNHCR. Fino al 2011 (anno delle rivolte arabe e della guerra in Siria) tutti i profughi assistiti dall’UNHCR nel resto del mondo erano meno numerosi dei profughi palestinesi, perché l’UNHCR, secondo il proprio mandato, li ha ricollocati in altri paesi dove si sono naturalizzati, liberandoli dalla condizione di profugo a vita. I palestinesi, al contrario, per favorire i desiderata arabi al mantenimento di una coltura di germi di odio verso Israele, vengono tenuti per sempre dall’UNRWA in condizione di rifugiati. Tenuti nei campi profughi per decenni, non sempre nutriti e curati ma totalmente privi di libertà politica ed economica e spesso di servizi essenziali, i palestinesi vivono e crescono nell’odio e nel desiderio di vendetta. Ma la situazione in cui si trovano è di esclusiva responsabilità UNRWA e della comunità internazionale che non pare avere intenzione di rivedere il mandato e gli obbiettivi UNRWA pretendendo che anche i profughi palestinesi vengano ricollocati, responsabilizzati e liberati. Secondo l’allargata definizione operativa UNRWA i presunti profughi si sono moltiplicati divenendo oggi quasi 6 milioni (mentre se fossero ricaduti sotto la definizione UNCHR forse non esisterebbero nemmeno più) che premono sulla comunità internazionale con la complicità di tutti quei numerosi attori mondiali odiatori di Israele.
L’UNRWA, infatti, continua ad alimentare il mito di un presunto ‘diritto al ritorno’ dei palestinesi, diritto che non è previsto in alcuna norma dell’ordinamento internazionale né quindi per alcun profugo di nessuna guerra. E questo è il sesto esempio di diritto internazionale creato ad hoc contro Israele. Sono a volte i singoli stati a riconoscere un determinato diritto in questo senso a determinate categorie di popolazione: l’Irlanda o la Germania per esempio, in forza di norme nazionali, e così pure Israele quanto al ritorno di Ebrei della Diaspora. Ma non esiste alcuna norma di diritto internazionale che possa imporre a uno Stato sovrano di garantire il diritto al ritorno di chicchessia. Ciò non ostante, la presunta esistenza e operatività di una tale norma pare esistere solo se riferita a Israele quanto ai rifugiati palestinesi.
Altro esempio sta nelle stesse risoluzioni ONU dal 7 ottobre scorso, nelle quali non si legge mai una chiara ed inequivocabile condanna di Hamas e i suoi affiliati, ciò che è sorprendente se si considera che l’Onu è stato creato proprio in risposta ai crimini del nazifascismo contro il popolo ebraico. E sorprendente se si considera che, per esempio, che il Consiglio di Sicurezza nel 2001 ha inequivocabilmente condannato con forza e senza riserve l’attacco terroristico dell’ 11 settembre a New York e nel 2014 ha condannato senza riserve il massacro e il rapimento di civili, le atrocità commesse negli attentati terroristici in Iraq e Siria, specificamente definendo tutte le organizzazioni e gruppi legati ad Al Qaeda come organizzazioni terroristiche. Questa definizione non è mai stata usata in alcuna delle Risoluzioni riguardanti il conflitto Israele Hamas con riferimento appunto ad Hamas e alle atrocità da questa commesse. Il focus di queste risoluzioni non è mai l’aggressione terroristica del 7 ottobre ma la reazione israeliana. Tant’è vero che in nessun caso viene indicato o suggerito il diritto di autodifesa di Israele, nonostante la previsione del già citato art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite.
Da ultimo, ma forse il più macroscopico, esempio (si potrebbe comunque andare avanti ancora a lungo) è riferito all’accusa di genocidio avanzata dal Sud Africa di fronte alla Internazionale Court of Justice, che rappresenta una lampante esercitazione di sovvertimento del diritto internazionale di cui alla Convenzione sul Genocidio per negare a Israele il diritto di difesa contro coloro che ne cercano la distruzione, per paragonare Israele al regime nazista alimentando slogans e propaganda ferocemente antisemita in tutto il mondo. Tema sul quale occorre dedicare un paragrafo a se stante.
Dovremmo pretendere che le fonti, l’interpretazione e l’implementazione del diritto internazionale siano uniche ed univoche per tutti i paesi del mondo, viceversa dovendosi ritenere che non esiste un diritto internazionale ma la totale anarchia, a solo discapito della democrazia e della pace mondiale.
*Presidente Associazione di Savona
I valore dei petrodolari arabi rispetto al diritto internazionale
Analisi chiara e oggettiva che dimostra quanto l’ONU sia ormai una organizzazione corrotta e di fatto organica alla propaganda palestinese.