Se l’antisemitismo diventa una moda

di Alessio Postiglione*

Antisemitismo fase suprema dell’antioccidentalismo. È vero che l’antisemitismo che è riemerso dopo la reazione israeliana al pogrom del 7 ottobre è il “medesimo spartito” che conosciamo da “millenni”, come ha sostenuto brillantemente su questo sito Emanuele Calò. Ciò nonostante, si intravedono degli elementi peculiari e nuovi.
In primis, un preoccupante sdoganamento dei pregiudizi più odiosi e triti. La facilità con la quale si accostano a Israele accuse come apartheid e genocidio, volte a delegittimare l’esistenza stessa di uno Stato, non a metterne in discussione le scelte del governo pro tempore.
Inoltre, le accuse provengono non esclusivamente dalle frange più radicali e ideologizzate, ma da ampi settori dell’opinione pubblica. Questi elementi indicano che siamo di fronte a un fenomeno nuovo, o comunque diverso. Non legato semplicemente all’antisemitismo tout court, ma alla più ampia legittimità che hanno riscosso alcune ideologie anti-occidentali, legate al massimalismo di sinistra, all’interno delle quali l’odio anti ebraico si situa.


Questo nuovo antisemitismo è parte di una più ampia “malaise” occidentale; quell’odio di sé, incubato nelle Università liberal, che il filosofo conservatore Roger Scruton, in tempi non sospetti, definiva oicofobia.
Un odio verso l’Occidente che non si limita a quei Paesi che mettono in discussione, anche per risentimento, l’attuale ordine mondiale. Ma che, cresciuto nelle Università o nei circoli culturali di Stati Uniti ed Europa, è diventato – se non maggioritario -, presente in modo trasversale. Un odio che pone una minaccia alla stessa democrazia, a causa delle strumentalizzazione che ne fanno democrature e regimi illiberali vari, che lo utilizzano come quinta colonna; e ancora più pericoloso perché non percepito come espressione di radicalismo politico.
Scruton individuava l’humus culturale dell’oicofobia nel decostruzionismo di Derrida e negli studi post coloniali di Fanon. Questo è un punto qualificante. L’antisemitismo – di cui l’antisionismo è solo la copertura ideologica -, considera Israele una entità “imperialista”, obliando che gli ebrei hanno sempre vissuto in Israele e omettendo che sono gli arabi ad aver conquistato quei territori a seguito dell’espansione degli ommayadi, e della conquista ottomana.


Ma perché i frutti avvelenati di questo massimalismo sessantottino li cogliamo oggi? E quali ne sono le peculiarità? Soprattutto considerando che, con la morte delle ideologie annunciata da Francis Fukuyama negli anni ‘90, si riteneva che, con la caduta del muro di Berlino, non ci sarebbe stato più spazio per l’estremismo in politica.
D’altronde, già negli anni ‘70, estrema sinistra ed estrema destra erano accomunate da una temperie anti occidentale, ed Israele era osteggiato come bastione dell’Occidente in un Medio Oriente romanticamente percepito come una terra precapitalistica. Non a caso, abbiamo diversi casi di comunisti, fascisti e perfino nazisti che, ossessionati dalla lotta all’occidente capitalista, diventavano musulmani, vagheggiando un Islam del buon selvaggio alieno alla modernità propria della cultura Occidentale: da Carlos lo Sciacallo, il terrorista e mercenario venezuelano, marxista-leninista e filo-islamico, a Rudolf von Sebottendorff, nazista della Società di Thule, che si converte all’Islam alla fine di un percorso di ricerca non dissimile a quello del, forse, maggior teorico della destra tradizionalista ed esoterica: René Guenon.
La novità – e il cortocircuito maggiore – avviene all’interno della sinistra e al diverso rapporto fra quest’ultima rispetto all’ordine economico dominante.
In primis, siamo passati dalla cosiddetta sinistra materialista, che metteva al centro le questioni strutturali, come l’economia, alla sinistra post materialista, incentrata su aspetti sovrastrutturali come le identità. Questa trasformazione ha favorito un matrimonio inaspettato. Mentre i valori della sinistra erano in antitesi con quelli dell’ordine neoliberale negli anni ‘80, il cosiddetto capitalismo cognitivo attuale si basa sulle parole d’ordine liberal: ambientalismo, gender, diversità e inclusione, sostenibilità. La polverizzazione della società in minoranze irriducibili sostenuta da questa sinistra si è poi rivelata in sintonia con l’ordine economico globale, perfettamente a suo agio con un approccio culturalista che guarda il dito delle identità e non la luna delle dinamiche materiali. Questo approccio ha così raggiunto altri ambiti, rispetto alle università dove covava, perché corrispondeva alle parole d’ordine della new economy. E diventava il nuovo lessico civile a cui si deve aderire fra i ben istruiti che lavorano nella Silicon Valley.


Ecco, dunque, la novità dell’antisemitismo odierno. Mentre gli antisemiti erano negli anni ‘70 gli estremisti di destra e di sinistra, il nuovo antisemitismo è mainstream. E qui si consuma il più grande cortocircuito di questo fenomeno. Se l’accusa a Israele-entità coloniale era falsa allora come oggi, negli anni ‘70 la sinistra europea comunque appoggiava leadership palestinesi che, per quanto corrotte, erano almeno formalmente socialiste. Oggi, la nuova sinistra dei campus, ossessionata dal gender e dalla libertà sessuale, non ha scrupoli a simpatizzare per i sessuofobi tagliagole di Hamas.
Che fare, dunque? Tante cose si possono e si devono fare. Consapevoli che si tratta di trasformazioni di lunga durata, e che l’antisemitismo si intreccia ad altre questioni che riguardano l’intero Occidente.

(Giornalista e scrittore)

L’immagine di copertina è tratta da perfondazione.eu

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