di Davide Cavaliere*

Benjamin Netanyahu, per più di un anno, ha coraggiosamente respinto ogni proposta di «cessate il fuoco» avanzata dall’amministrazione Biden, ribadendo più volte la sua volontà di condurre Israele alla «vittoria», ossia all’eradicazione definitiva di Hamas dalla Striscia di Gaza.
Il tutto avveniva nella spasmodica attesa di un successo elettorale di Donald Trump, che in campagna elettorale si era così laconicamente espresso: «Israel must finish the job». Un’affermazione interpretata come un impegno a lasciar «mano libera» a Israele affinché smilitarizzasse in modo definitivo Gaza.
Le cose non stavano proprio così. Il primo atto di Trump, ancora nemmeno insediatosi, è stato quello di obbligare Netanyahu a un accordo-capestro con Hamas, dunque a quel «cessate il fuoco» che per lunghi mesi, senza successo, l’amministrazione Biden aveva tentato di fargli siglare. Una decisione priva di
qualunque ragionevolezza, sia strategica che militare, voluta da Trump solo per potersi presentare come «portatore di pace» alla cerimonia d’insediamento.
Mentre a Gaza andava in scena il macabro spettacolo dei prigionieri israeliani, emaciati e sconvolti, fatti sfilare simili a morti viventi tra due ali di folla inneggianti al «martire» Sinwar, Trump passava a taglieggiare l’Ucraina, tentando d’imporle un «accordo» da strozzino sulle terre rare, per di più senza fornirle adeguate garanzie di sicurezza.

Ieri, all’ONU, Israele ha votato contro la risoluzione — che ricordiamo essere priva di qualunque cogenza normativa — di condanna all’aggressione russa dell’Ucraina, associandosi a «Stati canaglia» come la Bielorussia, la Corea del Nord e il Venezuela. Israele, dunque, sembra essersi accodato al «nuovo corso» trumpiano, che mira a riabilitare la Russia come attore internazionale affidabile. In molti hanno sostenuto
che questo voto alle Nazioni Unite sarebbe, proprio come il disastroso «accordo» sugli ostaggi, il secondo tassello di una raffinata quanto inconoscibile «strategia» dell’amministrazione Trump per isolare e colpire l’Iran, ormai vicinissimo alla fabbricazione di un ordigno atomico.
Peccato che, proprio qualche giorno fa, l’immobiliarista Steve Witkoff, inviato speciale di Trump per il Medio Oriente, abbia fatto capire di preferire la trattativa ai raid aerei per convincere Teheran a smantellare le sue infrastrutture nucleari a scopi bellici. Si tratta, di fatto, del medesimo approccio adottato da Obama, quello che portò al JCPOA, le cui clausole furono disattese dagli iraniani.
Eppure, nemmeno questi fatti riescono a scalfire il cieco fideismo nei confronti di Donald Trump, nuovo «uomo della Provvidenza», i cui piani, anche se inintelligibili, vengono considerati intrinsecamente benevoli per Israele. La riabilitazione della Russia da parte di Washington, non indebolirà l’Iran, stretto alleato di Mosca da decenni. Le due dittature sono vasi comunicanti: avvantaggiare la prima significa,
inevitabilmente, favorire la seconda.
Inoltre, si pone un problema morale piuttosto significativo: l’idea che la sicurezza di Israele la si possa fare sulla pelle degli ucraini pur di non turbare il mercuriale Trump, presupponendo che quest’ultimo, forse, nel prossimo futuro, farà gli interessi dello Stato ebraico, non è solo cinico ma sconvolgentemente ingenuo.

La Russia, infatti, non è mai stata amica di Israele, pendere a suo favore non è lungimirante. Tanto Hamas quanto Hezbollah devono molto al Cremlino. Non solo dal punto di vista militare, ma soprattutto da quello ideologico. L’accusa di «nazismo» e «colonialismo» mossa agli israeliani è una specialità della propaganda russa; un’accusa infamante che risale alla seconda metà degli anni Sessanta, quando Mosca
allestì il grande apparato diffamatorio anti-israeliano in seguito alla sorprendente vittoria ebraica nella Guerra dei Sei Giorni.
Un secolo prima, alla fine dell’Ottocento, la polizia segreta russa, l’Ochrana, fabbricò e diffuse il più celebre e nefasto documento antisemita della storia, i «Protocolli dei Savi Anziani di Sion». Il primo editore del noto falso fu Pavolači Kruševan, un pogromščik, ossia un fomentatore di pogrom, termine russo che significa «devastazione» e con cui vengono indicate le violenza popolari contro gli ebrei.
Due narrative che si sono capillarmente diffuse nel mondo islamico e che, oggi, costituiscono la spina dorsale ideologica di organizzazioni islamiste come Hamas e Movimento per il Jihad Islamico in Palestina.
Ciononostante, la propaganda russa continua a diffondere la tesi secondo cui l’Ucraina sarebbe uno dei paesi più antisemiti d’Europa. Una menzogna sesquipedale. Se l’Ucraina, sballottata tra comunismo e nazismo, fu uno dei teatri dell’Olocausto «dei proiettili», si pensi alla forra Babij Yar, non si possono dimenticare i 2.691 «Giusti tra le Nazioni» riconosciuti dallo Yad Vashem.
L’Ucraina, «terra di sangue» nel corso del XX secolo, è impegnata, come tante altre nazioni dello spazio post-sovietico, in un processo di elaborazione del proprio passato e di costruzione di una memoria collettiva. Gli eventi del 2013-2014 hanno svolto un ruolo decisivo nel superamento del nazionalismo estremo e conciliato le due memorie: quella ebraica della Shoah e quella ucraina incentrata sugli olodomor. Ebrei con la kippah, patrioti ucraini, cosacchi con la papakha, armeni residenti in Ucraina si sono uniti nella comune lotta contro Yanukovich e il suo governo eterodiretto da Mosca.
Simbolo di questa elaborazione compiuta è proprio il presidente Volodymyr Zelens’kyj, discendente di una famiglia ebraica decimata dai nazisti. Mentre l’Ucraina affronta i fantasmi del suo passato, nel tentativo di trasformarsi una liberal-democrazia compiuta, Putin bombarda il memoriale eretto in memoria delle vittime ebree della strage di Babij Yar, riduce a un cumulo di polvere le architetture ebraiche di Bakhmut e di Odessa, uccide a Kharkiv Boris Romanchenko, uno degli ultimi superstiti di Buchenwald.

Non è dunque possibile, per chi ha cuore l’ordine democratico occidentale e la costellazione di valori che lo guidano, e soprattutto per chi è da sempre dalla parte di Israele e delle sue ragioni, non trovarsi dalla parte dell’Ucraina, ovvero dalla parte della civiltà occidentale.
Presidente Associazione Italia-Israele di Cuneo
grazie dell’ottimo articolo