La giornalista Elisa Garfagna spiega come l’arma di Hamas corre sui media.

Non è solo una guerra di bombe e kalashnikov. Non è nemmeno solo una guerra di propaganda. È una guerra psicologica, fatta di terrore calcolato, di messaggi subliminali, di rituali umilianti che diventano parte integrante della strategia del terrore.
Ce lo spiega la giornalista indipendente Elisa Garfagna profonda conoscitrice di Medio Oriente. Hamas, infatti, non si accontenta di catturare ostaggi, di nasconderli nei meandri della Striscia di Gaza o di trattare sulla loro vita come si fa con la merce di contrabbando. No, Hamas usa gli ostaggi come pedine in un gioco sadico, dove ogni gesto, ogni immagine, ogni parola pronunciata sotto costrizione ha un significato preciso, un obiettivo: piegare, umiliare, sfiancare psicologicamente Israele e le famiglie degli ostaggi, ma anche rafforzare la propria narrativa agli occhi di un certo pubblico. L’ultimo rilascio degli ostaggi ha confermato questa logica dell’orrore. Sei ragazzi sono stati liberati, ma Hamas non si è limitata a restituirli. No, ha messo in scena un vero e proprio spettacolo della crudeltà. Due prigionieri sono stati condotti su un pick-up tra i miliziani per assistere al rilascio dei loro compagni, per illudersi di essere i prossimi, per poi essere risucchiati di nuovo nell’abisso dei tunnel. Due ostaggi, di cui oggi non si sa più nulla. Due esseri umani trasformati in simboli viventi di un’angoscia infinita. E non è finita qui. Hamas diffonde un video in cui quei prigionieri, palesemente sotto costrizione, implorano le loro famiglie di non perdere la speranza, di continuare a pregare. Ma è una speranza che Hamas stessa tiene in ostaggio, decidendo chi può sopravvivere e chi no, giocando con il tempo, con le emozioni, con la disperazione. Israele e le famiglie hanno chiesto che il video non fosse diffuso, ma la macchina del terrore non si ferma: il filmato circola, viene rilanciato da account filo-palestinesi che lo interpretano come una dimostrazione di rispetto, di umanità. Una farsa cinica, un ribaltamento della realtà che serve a trasformare il carnefice in benefattore. Questa non è una novità. È la stessa strategia adottata dall’ISIS quando vestiva gli ostaggi in tute arancioni prima di sgozzarli in diretta, è la stessa dinamica di umiliazione e controllo psicologico. L’ultimo degli ostaggi liberati è stato costretto a baciare due miliziani di Hamas sulla testa, un atto simbolico che doveva suggerire gratitudine, rispetto. Ma è il contrario: è un’umiliazione programmata, un modo per alimentare la narrativa che i prigionieri sono stati trattati con umanità, che persino loro riconoscono la benevolenza dei loro carcerieri. E questo è il pericolo più grande. Perché queste immagini, questi gesti obbligati, vengono subito strumentalizzati da chi sostiene la causa palestinese senza distinguere tra il popolo e i terroristi. “Vedi? Persino gli ostaggi baciano Hamas, quindi non sono i veri nemici. Il vero problema è Netanyahu, non Hamas.” Una distorsione pericolosa che rischia di radicarsi in una parte dell’opinione pubblica occidentale, ma che inizia anche a mostrare crepe. Perché la brutalità non si può nascondere per sempre. Perché il terrore ha una firma, e il mondo comincia a riconoscerla.
Israele ha rifiutato di liberare i 600 “ingegneri” di Hamas, e ciò ha bloccato le trattative. Qual è la posta in gioco in questo braccio di ferro?
Il nodo degli ostaggi è diventato un’arma negoziale potentissima per Hamas, e il fatto che Israele si sia rifiutato di liberare questi 600 terroristi altamente specializzati dimostra quanto sia consapevole del pericolo. Si tratta di ingegneri e tecnici che lavorano alla costruzione di tunnel, missili e infrastrutture belliche sotterranee. Restituirli a Hamas significherebbe rafforzare il gruppo a livello militare e logistico, rendendo ancora più complessa l’operazione israeliana a Gaza. Questo rifiuto ha bloccato le trattative, perché Hamas continua a giocare sulla vita degli ostaggi, usando la loro sofferenza come leva di pressione.
Durante l’ultimo rilascio, due ostaggi sono stati portati su un pick-up a vedere la liberazione dei loro compagni, per poi essere riportati nei tunnel. Cosa significa questa messa in scena?
È una tattica di tortura psicologica. Mostrare a due prigionieri che la libertà è a pochi metri da loro, per poi risucchiarli di nuovo nell’oscurità dei tunnel, è un modo per spezzare ogni resistenza mentale, per instillare il terrore puro. Non è una scelta casuale: Hamas sa che queste immagini arriveranno alle famiglie e al governo israeliano, aumentando l’angoscia e la pressione sulle autorità affinché cedano alle loro richieste.
Poco dopo Hamas ha diffuso un video in cui questi ostaggi parlavano, chiedendo alle loro famiglie di non perdere la speranza. Cosa c’è dietro questo tipo di messaggi?
Si tratta di un copione forzato. Gli ostaggi sanno di essere in pericolo di vita e dicono esattamente quello che Hamas vuole che dicano. È lo stesso meccanismo usato dall’ISIS con gli ostaggi occidentali nei primi anni 2000: costringerli a lanciare messaggi ambigui, che possano essere interpretati come segni di umanità da parte dei terroristi. Ma il vero scopo è molteplice: tenere alto il morale dei prigionieri per poterli sfruttare ancora, confondere l’opinione pubblica e soprattutto logorare le famiglie, che vedono i loro cari vivi ma sanno di non poter fare nulla per salvarli.
Un altro aspetto inquietante è stato l’obbligo imposto a un ostaggio di baciare due miliziani sulla testa prima di essere rilasciato.
È una scena studiata a tavolino. Hamas vuole che il mondo veda gli ostaggi mentre mostrano un’apparente gratitudine, per dare l’illusione di un trattamento umano. Ma è un’umiliazione deliberata. È un messaggio che colpisce sia i prigionieri, sia
chi osserva dall’esterno. Da un lato si vuole dimostrare che Hamas non è un’organizzazione terroristica, bensì un movimento “resistente” che tratta gli ostaggi con rispetto. Dall’altro, si obbliga la vittima a un gesto che trasmette sottomissione, spogliandola di ogni dignità. È una tecnica psicologica brutale, che serve sia per la propaganda interna che per la narrazione esterna.
Questo tipo di propaganda trova terreno fertile nei movimenti pro-palestinesi in Occidente. Perché?
Perché il conflitto israelo-palestinese è stato trasformato in una battaglia simbolica globale, spesso priva di conoscenza storica e geopolitica. I movimenti filo-palestinesi, o almeno una parte di essi, non distinguono tra la causa palestinese e Hamas, e questo è il grande problema. Hamas sa benissimo che, diffondendo video come questi, offre un nuovo materiale propagandistico a chi lo sostiene dall’esterno. Così, alcune persone che non hanno una visione chiara della situazione diffondono contenuti manipolati, rinforzando la falsa narrativa secondo cui Hamas è il vero difensore dei palestinesi, mentre il nemico è esclusivamente Israele e Netanyahu.
Questa narrativa, però, sta iniziando a incrinarsi. Cosa sta cambiando?
C’è una crescente consapevolezza del livello di brutalità di Hamas. Se all’inizio del conflitto molte persone guardavano a Gaza solo come una vittima della guerra, oggi emergono sempre più prove della ferocia dei miliziani. Le immagini dei massacri del 7 ottobre, le testimonianze degli ostaggi liberati, le atrocità documentate stanno iniziando a far riflettere anche chi, in Occidente, aveva preso una posizione automatica a favore della “resistenza palestinese” senza fare distinzioni. Certo, ci vorrà tempo, ma Hamas non può nascondere a lungo la propria natura terroristica.
Dai video e dalle foto che circolano, emerge come Hamas venga trattato da molti palestinesi come un gruppo di eroi. È davvero così?
Questa è una delle questioni più complesse. Da un lato, una parte della popolazione palestinese vede in Hamas una forma di resistenza, l’unico strumento per contrastare Israele e per provare a ottenere un peso politico nella regione. Dall’altro, esiste sicuramente una parte della popolazione – magari più piccola e meno visibile – che è costretta a manifestare sostegno, a esultare, a portare persino i bambini a queste macabre celebrazioni per paura di ripercussioni. Il paragone con i regimi totalitari del passato è calzante: durante il fascismo o il nazismo, non tutti condividevano l’ideologia dominante, ma chi si opponeva apertamente rischiava di essere ucciso, torturato, umiliato. Lo stesso accade a Gaza: chi critica Hamas rischia la vita.
Questa situazione ha fatto anche discutere il concetto degli scudi umani: secondo alcuni, Hamas non userebbe la popolazione come protezione. Lei come legge questa dinamica?
L’idea che Hamas non utilizzi i palestinesi come scudi umani è semplicemente smentita dai fatti. Esistono numerose prove, dai tunnel costruiti sotto scuole e ospedali fino alle dichiarazioni di ex membri dell’organizzazione, che confermano questa strategia. Ma il punto di vista palestinese è differente: per molti, questa non è una guerra tra Hamas e Israele, ma un genocidio in corso. Hamas si presenta come l’unica forza che può difenderli e quindi ogni sua azione viene vista in quest’ottica. Per questo, persino i tunnel vengono percepiti in maniera opposta: noi li immaginiamo come infrastrutture belliche, ma per chi sostiene Hamas sono strumenti che avrebbero potuto essere usati per salvare civili, per nascondere donne e bambini.
Ora però le trattative sembrano in stallo. Cosa sta succedendo?
Siamo in una fase di stallo dopo il rilascio degli ultimi sei ostaggi. Israele ha posto una condizione molto chiara: non intende liberare i 600 terroristi di Hamas, in particolare gli ingegneri e i tecnici che si occupano della rete di tunnel e delle infrastrutture militari. Questo ha portato Hamas a congelare l’accordo, sostenendo che “i loro ostaggi” – così chiamano i prigionieri palestinesi detenuti in Israele – devono essere rilasciati. Un ribaltamento della realtà, tipico della loro strategia di propaganda.
Ma chi decide effettivamente dalla parte palestinese? Esiste un interlocutore oltre a Hamas?
Hamas è il principale interlocutore, ma dietro di loro ci sono altre sigle del terrorismo islamico. Al-Qaeda, ISIS, Al-Fatah e altri gruppi sono presenti nella regione e agiscono con obiettivi comuni. Lo si vede anche dalle immagini dei combattenti: nelle loro fasce e divise ci sono i colori distintivi delle varie organizzazioni. In realtà, questa non è una guerra tra Israele e Palestina, ma tra Israele e il terrorismo islamico. Ridurla a un conflitto territoriale è una lettura semplicistica e fuorviante.

Pubblicato su Il Mattino della Domenica, un settimanale di lingua italiana del Canton Ticino (Svizzera). Intervista a cura di Mauro Botti
Elisa Garfagna è socia di APAI Italia-Israele Genova.