di Giuseppe Crimaldi

Il new deal di Trump nell’analisi di tre grandi politologi
Questo articolo è come la vaschetta dello yogurt: porta la scadenza di domani. Vuol dire che l’analisi che leggerete oggi potrà non essere più genuina a breve, magari già da stasera.
La premessa è d’obbligo considerando la rutilante rapidità con la quale Donald Trump lancia i suoi messaggi per poi contraddirli con una piroetta dal tramonto all’alba. Dovremo abituarci anche a questo.
L’insediamento della nuova amministrazione americana ha sparigliato il gioco degli equilibri internazionali. Su questo non c’è dubbio, e in sé la cosa non sarebbe affatto negativa se non fosse per il fatto che per orientarci, per capirci qualcosa oggi siamo costretti a resettare tutto quello su cui fino a qualche mese fa avevamo posto convinzioni, idee e in qualche (raro) caso anche certezze.
Questa accelerazione ha prodotto almeno due conseguenze: l’ordine mondiale che abbiamo conosciuto non esiste più, e di questo dobbiamo farcene una ragione, che ci piaccia o no; e poi sono cambiate le forme politiche e comunicative, che da oggi si fondano sull’aggressività verbale e quasi fisica, mettendo nell’angolo la sana e cara diplomazia di un tempo, oggi costretta anch’essa ad iscriversi a qualcosa che assomiglia più ad un campionato di braccio di ferro che non alla Grundnorm del diritto internazionale: vince il più forte, niente più mediazioni, nessuno spazio per lunghe e complesse fasi negoziali; con buona pace degli ideali liberali su cui fondavano Europa e America, vince solo chi sopravvive ai corsari e all’arrembaggio del proprio vascello.
Pertanto viene da chiedersi dove stia andando il mondo, e prima ancora dove vadano gli Stati Uniti. In questo articolo non darò risposte, e tanto meno ci saranno prese di posizione. Meglio restare ancora alla finestra a guardare – non senza preoccupazioni, sia chiaro – il quadro che si sta scomponendo e ricomponendo sulla Terra. Preferirò dunque riportare alcuni passaggi di interventi e opinioni di tre illustri politologi e analisti di provata competenza. Partendo da ciò che ha scritto qualche giorno fa Ernesto Galli della Loggia, all’indomani della sceneggiata nello Studio Ovale della Casa Bianca con Zelensky.

(Ernesto Galli della Loggia)

“Quanto è successo alla Casa Bianca tra Trump e Zelensky ha solo pochi precedenti – scrive il professore – Sono precedenti scolpiti nella memoria di coloro che ancora ricordano qualcosa dei grandi drammi vissuti dalla democrazia europea. Nello Studio Ovale è andata in scena una sorta di replica delle chiamate a rapporto da parte di Adolf Hitler nella sua villa tra le alpi bavaresi una volta di un cancelliere austriaco (si chiamava Kurt von Schuschnigg), un’altra volta del capo di Stato ungherese Horthy, per essere entrambi sottoposti a una furia di insulti e di minacce e sentirsi intimare di cedere alla volontà del Führer quanto rimaneva della libertà dei loro Paesi”.

“Trent’anni dopo sarebbe toccata più o meno la stessa sorte al leader cecoslovacco Alexander Dubcek convocato da Breznev a Mosca nell’estate del 1968 con l’invito a fare poche storie e accettare senza fiatare l’occupazione del suo Paese da parte dell’Armata Rossa. Quando si arriva al dunque sono sempre tentati di agire così, evidentemente, i despoti, neri o rossi che siano; e oggi dobbiamo dire con la morte nel cuore anche quelli a stelle e strisce. Del resto non si può dire che il Presidente americano non ci avesse preparato a quanto è successo a Washington. Da tre mesi tutte le sue parole sono state parole di minacce, di prepotenza, di disprezzo. Perfettamente in linea del resto con quello che è apparso subito il suo programma: all’interno una democrazia senza liberalismo e dunque senza élite, all’estero un impero americano senza l’Occidente e dunque senza soft power”.
“Questa è la sfida mortale che Donald Trump ha lanciato non a noi europei solamente, ma alla storia del suo stesso Paese: ignaro certamente che le vendette che questa sa prendersi possono essere terribili. Cerco di spiegare quanto ho appena detto. Tra il suffragio universale da un lato e i diritti inviolabili di libertà individuale dall’altro c’è stato un felice incontro storico, ma non c’è alcun nesso necessario. Infatti, mentre il primo, il suffragio universale, garantisce l’affermazione della volontà della maggioranza indistinta, dei desiderata della massa; i secondi, i diritti di libertà, tutelano, invece, purché ciò non nuoccia a qualcun altro, la sfera di libertà del singolo, la libertà di ogni individuo di vivere al modo che preferisce, di credere ciò che vuole, di pensare anche le idee più sgradevoli e malviste, di stamparle e diffonderle come vuole, perfino di insegnarle. Dunque il suffragio universale incarna per sua natura il principio popolare, mentre i diritti individuali hanno invece un’origine, e conservano un carattere, in un certo senso aristocratico. Garantiscono la sfera di libertà del singolo o dei pochi contro i più, ma garantiscano anche che nelle società governate dalla volontà delle maggioranze esistano le élite e le istituzioni che le alimentano. Le istituzioni dove le élite stesse per lo più operano (in generale tutte quelle che hanno a che fare con il sapere e la cultura in senso lato, dalla burocrazia alla stampa, alle università): nelle quali ciò che conta essenzialmente è il merito”.


“Fino ad oggi – conclude Galli – questa parte dell’Europa e gli Stati Uniti sono stati governati da un regime liberal-democratico, un regime, per l’appunto, che contemperava in vari modi diritti ed elezioni, élite e volontà popolare. L’arrivo di Trump sulla scena segna una drammatica frattura storica tra questi due ambiti. (…)
Ma ciò che alla fine più colpisce è il carattere suicida che il nuovo Presidente sta imprimendo alla politica estera del suo Paese. Oggi vi sono tre grandi centri di potenza geopolitica sulla scena del mondo — Stati Uniti, Russia, Cina — ma esiste, sia pure molto a mala pena, un solo impero mondiale, quello americano. E l’impero americano è tale, però, solamente perché di esso fa parte l’Europa, tutta l’Europa che vuole essere libera. Solo chi domina l’Europa, infatti, può aspirare a dominare il mondo. Ma l’impero americano o è democratico o non è. Non può essere. Democratico significa non solo tenuto insieme dal vincolo di istituzioni egualmente democratiche, di scambi commerciali senza ostacoli e di movimenti umani liberi. Significa anche un insieme di popoli, di donne e di uomini, legati da comuni narrazioni, fantasie, musiche, emozioni, raffigurazioni simboliche, e dunque valori che abitano le loro giornate, i loro sogni, le loro vite. Vuol dire cioè quell’insieme di cose cui gli Stati Uniti hanno dato a partire dagli inizi del Novecento una contributo decisivo modellando, si può dire per sempre, l’immaginario occidentale e dando forma al vero cuore del loro potere sul mondo moderno, quello che si chiama appunto il soft power, il potere soffuso, invisibile. Che alla fine non è altro che il magico potere della libertà. Che fino ad oggi ha spinto tanti di noi, in tante occasioni, a unirsi in silenzio all’antica invocazione God bless America: «Iddio benedica l’America!». Ma l’America che abbiamo conosciuto, non quella che annunciano le truci parole del suo nuovo capo”.


Su quale America si stia presentando al mondo interviene anche Massimo Cacciari: “Guerra civile negli Stati Uniti? E’ un parolone, però è concreto e forte il rischio di rivolte modello assalto a Capitol Hill e sommosse in alcuni stati dove il risultato è incertissimo, come dimostrano le preoccupazioni delle autorità Usa che stanno predisponendo contromisure”.

“Le contraddizioni che ci sono da sempre – sostiene il filosofo – nella società americana di tipo etnico, razziale e sociale si sono fortemente acutizzate. Nella società stessa degli Stati Uniti al suo interno è venuta meno ogni tipo di ragione comune, che invece in passato aveva retto perfino con la guerra in Vietnam e nonostante il ’68. Oggi la situazione è totalmente diversa rispetto a quando Al Gore, pur probabilmente in quel caso davvero con brogli elettorali, concesse la vittoria a George Bush nell’interesse superiore dell’unità del popolo americano. Oggi il linguaggio politico è quello della demonizzazione dell’avversario interno ed esterno e in America, ma non solo, è ormai un perenne guerra tra il bene e il male che devasta il tessuto democratico. Trump è il caso più clamoroso ma non è certo solo lui, tutti rappresentano il bene contro il male in una guerra continua. La democrazia invece è dialogo, confronto e anche riconoscere il valore dell’altro. Finora negli Stati Uniti e in Europa si vota liberamente, la magistratura è ancora indipendente e la stampa libera, ma se continua questo clima di guerra e contrapposizione non so davvero quando possa resistere la democrazia”.

(Massimo Cacciari)
“La nuova amministrazione Trump sta mettendo l’Ue da parte? Trump dice solo, anche attraverso il suo vice Vance, che il re è nudo. Dopodiché, che la politica estera americana abbia sempre visto con sospetto un’Europa politicamente unita è il segreto di Pulcinella: è una costante di Washington vedere l’Europa come un alleato comodo incapace di critica e autonomia. La verità è che non c’è l’Ue, ci sono gli Stati che compongono un continente chiamato Europa e che, gettando il cuore oltre l’ostacolo, hanno creato un mercato e una moneta comune nella prospettiva che ciò comportasse un’accelerazione di politiche unitarie. Ma è avvenuto l’opposto in tutti i campi, fino alla totale subordinazione della politica estera europea agli Usa. Sono fatti. Del resto negli Usa, dopo il crollo del Muro, si è imposta l’ideologia dei neocon americani, con il primo governo Bush e ancor più con quello di Bush jr. La loro ideologia è scritta nel loro manifesto fondamentale, “Progetto per il Nuovo Secolo Americano”. E tutto si ritrova nell’ideologia trumpiana che porta tale ideologia all’eccesso. Lo slogan “Make America Great again” vuol dire questo più l’alleanza con la destra tecnocratica dei padroni dei social”.

Infine Federico Rampini. “La «rissa in mondovisione» Trump-Vance-Zelensky in diretta dallo Studio Ovale è stato l’ultimo di una catena di choc – scrive il giornalista e saggista – Il mondo intero osserva il ciclone Trump: attonito, sgomento, o compiaciuto. In Europa il senso di vertigine è accentuato da una sensazione: che a differenza dal 2017-2020 stavolta ci sia un lucido disegno dietro l’apparente caos. Cioè che questo presidente stia preparando un Nuovo Mondo. A gran velocità trasforma le mappe della geopolitica sotto i nostri occhi. Ci sarà un ruolo per l’alleanza transatlantica in questo futuro? Se siamo alla vigilia di una Nuova Yalta, con spartizione di sfere d’influenza tra superpotenze come avvenne nel 1945, l’Europa teme di essere spettatrice più che protagonista nel triangolo America-Russia-Cina. Ma quanto di tutto questo è veramente nuovo? O la sorpresa deriva dal fatto di non aver visto i cambiamenti profondi in atto da anni, a cominciare da quelli interni alla società americana?”

(Federico Rampini)
“Trump tradisce l’Ucraina, è giusto indignarsi, è sbagliato stupirsi: lo aveva annunciato da tempo. Cerca un patto con Putin per far cessare la guerra, creare un ordine stabile al posto dei combattimenti, ridurre le spese e gli impegni dell’America all’estero: anche questo lo prometteva da anni, conquistando consensi nella sua base elettorale. Di nuovo: si può essere costernati o perfino disgustati, non sorpresi.
Questa è un’America «stanca di impero», da oltre un trentennio. Dal 1992, cominciando da Bill Clinton, tutti i candidati vincenti nella corsa alla Casa Bianca hanno fatto un promessa solenne agli elettori: mi occuperò di voi e dei vostri problemi, non verrò distratto da impegni internazionali. Tutti (Clinton, Bush, Obama, Biden), una volta vinte le elezioni fecero l’esatto contrario, risucchiati in qualche crisi estera. America First era un impegno di tutti, solo Trump oltre a farne uno slogan ci prova davvero, a smantellare la pretesa di essere il gendarme mondiale. Nei suoi ultimi anni di vita Henry Kissinger aveva azzardato questa profezia: che il «mostruoso» Trump fosse una sorta di incidente della storia indispensabile per prendere atto della realtà. Concentrarsi solo su di lui fa dimenticare che la politica estera dei suoi predecessori aveva accumulato insuccessi. Al tempo stesso, paradossalmente, lui è arrivato alla guida di una nazione la cui forza economica, tecnologica, finanziaria, demografica, energetica, ha distanziato tutte le rivali. «Gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere» era il titolo di un celebre saggio di geopolitica che apparve all’inizio del millennio. Questa distanza planetaria oggi è vera perfino più di allora. Il divario tra le due sponde dell’Atlantico ha molte dimensioni e una riguarda l’informazione. Molti europei non hanno mai capito Trump e soprattutto il trumpismo. Non ne hanno percepito le cause profonde, quindi hanno finito per aggrapparsi alle apparenze. Trump il Mostro per alcuni, il Demiurgo per altri: i giudizi sono sommari e automatici, scaturiscono da riflessi quasi tribali. L’odio o il disgusto, oppure la simpatia, scattano in base alle appartenenze politiche, alle convinzioni ideologiche. Riducendo The Donald ai suoi aspetti più vistosi — che sono indubbiamente estremi, grotteschi — si liquida con una caricatura anche l’America che lo ha votato: bifolchi ignoranti, «non sanno quello che hanno fatto», o peggio, cripto-fascisti, razzisti, magari manipolati dalle oligarchie capitalistiche con in testa Elon Musk. L’unica Repubblica capace di conservare la democrazia da due secoli e mezzo, la nazione più ricca e dinamica del mondo, il polo di innovazione che continua ad attirare immigrati e «cervelli» dal mondo intero, viene descritta come un luogo infame o infernale da chi demonizza il suo presidente. E magari prevede — o pregusta? — un fascismo americano dietro l’angolo”.
“Ma per essere credibili nel condannare ciò che Trump fa di sbagliato – conclude Rampini – bisogna avere l’onestà di riconoscere le sue intuizioni giuste, le ragioni di chi lo ha votato, i torti dei suoi avversari. Perfino nel caso di Trump, nonostante la sua capacità di scatenare emozioni estreme, il giudizio della storia è raramente tutto bianco o tutto nero”.

3 thoughts on “Quo vadis America?

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