di Francesco Speroni*

Palestina, una parola inventata per usarla come gomma da cancellare.
Nel 135 d.C., dopo la sanguinosa rivolta di Bar Kokhba, l’ultima in ordine cronologico della resistenza ebraica all’occupazione romana, l’Imperatore Adriano decise di punire gli ebrei in modo esemplare. Oltre a distruggere le loro città, a partire da Gerusalemme, Adriano adottò una misura particolarmente simbolica e crudele: cambiò il nome di quella provincia romana da Giudea a Syria Palaestina. Il termine Palestina derivava dai Filistei, un popolo invasore che si era appropriato della costa sud-occidentale della regione[1].
I Romani fecero questo con l’intenzione di cancellare l’identità ebraica della regione, volevano far sembrare che il legame del popolo ebraico con quella terra fosse irrilevante o addirittura inesistente. Insomma, usando una similitudine contemporanea, volevano cancellare Israele dalle mappe geografiche. Prima si eliminò il nome autentico, Giudea, che evocava la radicata presenza dei giudei, poi si creò dal nulla un nome associato ai nemici degli ebrei, i filistei. La nuova parola inventata dai romani, Palestina, rappresentava una vera umiliazione, un atto deliberato di mortificazione: l’Impero Romano voleva far dimenticare la presenza millenaria degli israeliti in quelle terre, sostituendoli coi loro nemici invasori.
Questa azione dell’imperatore Adriano, purtroppo, segnerà un cambiamento duraturo, influenzando anche la percezione della regione nei secoli successivi, fino ai giorni nostri, quando la questione del nome di quella terra si è trasformata in un tema centrale del conflitto israelo-palestinese.
Gesù non era palestinese
Nel contesto contemporaneo, è frequente sentir definire Gesù come palestinese, ma questa terminologia è storicamente errata e, in molti casi, ideologicamente motivata. Gesù, nato a Betlemme nella regione della Giudea, visse in un periodo in cui il nome Palestina non esisteva. Come ho già ricordato, quella parole fu coniata nel II secolo d.C., e quindi non aveva nulla a che fare con la realtà del tempo in cui Gesù visse. Non era palestinese lui né nessuno dei suoi contemporanei.
Gesù era ebreo, e la sua vita e il suo messaggio erano intrinsecamente legati alla cultura ebraica della Giudea. L’etichetta di palestinese è una distorsione, una forzatura che rispecchia l’agenda politica di chi, oggi, tenta di riscrivere la storia per sovrapporre l’identità palestinese alla tradizione ebraica. Inoltre, questa definizione viene spesso usata come un tentativo di indebolire la legittimità dello Stato di Israele rimuovendo il legame storico e culturale che gli ebrei hanno con quella terra. L’uso del termine palestinese per Gesù non ha quindi solo una valenza storica errata, ma è anche un’operazione ideologica, volta a modificare la percezione del conflitto israelo-palestinese, con l’obiettivo di presentare un’immagine che non corrisponde alla realtà storica.
Questo è solo uno dei tanti esempi di come, nel corso degli anni, si sia tentato di sovrapporre l’identità palestinese a quella ebraica. Questi tentativi sono spesso accompagnati da narrazioni politiche che riscrivono la storia in modo da favorire una certa visione del conflitto israelo-palestinese. Ecco alcuni dei principali episodi di mistificazione:
1. L’UNESCO e la riscrittura della storia
Nel 2016, l’UNESCO ha approvato una risoluzione che definisce il Muro del Pianto (Kotel) come parte del Patrimonio Palestinese, escludendo la sua storicità e significato per gli ebrei. Nel 2017, è la volta della tomba dei Patriarchi di Hebron, o Me’arat HaMachpela, uno dei luoghi più sacri per il popolo ebraico, essendovi sepolti Abaramo, Isacco, Giacobbe e le loro mogli. Tuttavia, alcuni gruppi palestinesi, supportati da compiacenze politiche internazionali, presentano il sito come esclusivamente palestinese e islamico.

L’UNESCO aderisce a questa visione arrivando a definire anche quel sito Patrimonio Palestinese, ignorando completamente il suo significato storico e religioso per gli ebrei. Tutti questi atti sono stati fortemente criticati da Israele e dalle comunità ebraiche, poiché rappresentano un tentativo di cancellare la connessione ebraica con i luoghi più sacri della loro tradizione.
2. La negazione del legame storico con Gerusalemme
Gerusalemme è un altro esempio di come si cerchi di cancellare questa connessione: i leader palestinesi, assieme a movimenti internazionali, sostengono che Gerusalemme dovrebbe essere la capitale esclusiva di uno Stato palestinese, negando il ruolo centrale della città nella storia ebraica. La negazione della centralità di Gerusalemme per gli ebrei è un tentativo di riscrivere la storia e di spostare la narrazione in una direzione che non riconosce la realtà millenaria della presenza ebraica.
3. Le rivendicazioni sulla storia dei luoghi religiosi
Un altro punto critico è la questione dei luoghi religiosi che sono storicamente legati alla tradizione ebraica. Il conflitto sul Monte del Tempio di Gerusalemme, che secondo la tradizione ebraica è il luogo dove sorgeva il Primo e il Secondo Tempio, è uno degli esempi più eclatanti. Mentre i palestinesi cercano di attribuire una rilevanza esclusivamente musulmana al sito, l’identità ebraica del luogo è indiscutibile dal punto di vista storico e archeologico. La negazione di questo legame è una forma di riscrittura storica che ha forti implicazioni politiche.
4. Le manipolazioni della memoria storica
Un altro elemento chiave di questa sovrapposizione riguarda il tentativo di presentare la storia della regione come se la Palestina avesse sempre avuto un’identità nazionale coerente e distintiva, ignorando le millenarie radici israelitiche.

L’idea che la Palestina sia una “terra senza popolo per un popolo senza terra”, ripresa nel secolo XIX dai movimenti nazionalisti arabi, ha alimentato la narrazione secondo cui gli ebrei non avrebbero una storia legittima in quella terra. Quando nel 1948 David Ben-Gurion proclamò la fondazione dello Stato di Israele, questo atto non comportò il sostituirsi ad un preesistente Stato palestinese. È fondamentale chiarire che non esisteva alcun “governo palestinese” né un “presidente palestinese” da spodestare, come spesso viene erroneamente suggerito. Prima del 1948, la regione non era un’entità statale palestinese, ma faceva parte del Mandato britannico di Palestina e non aveva alcuna struttura di governo indipendente. L’idea che Israele sia stato fondato a scapito di uno Stato palestinese preesistente è una falsità storica. Non c’era nessuna Palestina indipendente da proteggere o preservare: piuttosto, c’era una terra senza uno Stato sovrano, una regione sotto il controllo britannico, la cui popolazione araba viveva in una condizione di amministrazione coloniale. La proclamazione di Israele, sancì la nascita dello Stato ebraico in una terra che altrimenti non aveva nessun’altra autorità costituita. La narrativa che presenta Israele come usurpatore di un popolo senza terra è una distorsione che ignora sia la realtà storica che il contesto geopolitico.
5. Archeologia negazionista
Infine, tra coloro che cercano di indebolire il legame ebraico con la terra d’Israele, alcuni hanno fatto leva sulle recenti scoperte archeologiche — peraltro realizzate da team israeliani — per negare la validità storica delle Scritture. Citano ad esempio la Stele di Tel Dan, che menziona la “Casa di Davide” , bollandola come falso epigrafico privo di valore, e reinterpretano la Stele di Mesha per sostenere che non esistano tracce reali di un regno davidico o della fede in Yahweh, riducendo la Bibbia a mera mitologia. L’intento è palese: si vuol far credere che, se persino l’archeologia israeliana può essere usata come prova contro le Scritture, allora ogni legittimità storica del popolo ebraico nella propria patria risulta messa in discussione.
Concludendo, tutti questi esempi dimostrano come l’agenda politica dei palestinesi e dei loro alleati internazionali stia cercando di sovrapporre l’identità palestinese a quella ebraica, distorcendo la storia e le tradizioni. Questo tipo di riscrittura non solo minaccia la verità storica, ma crea un terreno fertile per esasperare ulteriormente il conflitto, alimentando ulteriormente divisioni e ostilità, cosa della quale nessuno dovrebbe sentire il bisogno.
[1] I filistei possono essere definiti invasori, perché non erano originari della terra di Canaan: giunsero probabilmente dal Mar Egeo intorno al XII secolo a.C., durante l’ondata dei cosiddetti Popoli del Mare. Si insediarono con la forza sulla costa meridionale, conquistando territori e fondando proprie città-stato. La loro presenza fu imposta, non frutto di un’evoluzione interna alla regione, ed entrarono subito in conflitto con le popolazioni locali, soprattutto con gli Israeliti.
*Francesco Speroni fino a pochi anni fa ha svolto l’attività di cameraman e editor. È stato documentarista d’arte per poi dedicarsi, a partire dal 2005, alle news, trasferendosi in Israele dove vi rimane quasi cinque anni lavorando soprattutto per Rede Globo. Dopo questo intenso periodo, si trasferisce prima in Giordania, poi nelle Filippine, dove vi rimane alcuni anni lavorando nella produzione cinematografica.
E’ il Coordinatore per la Versilia della Associazione Apuana Amici Italia Israele.
Un verità storica da ricordare continuamente perché continuamente prosegue la disinformazione di stampo antisemita che alimenta odio e ignoranza .
Un articolo davvero ben fatto grazie a Francesco Speroni , Kadima
Meraviglioso articolo! Da incorniciare. Bravissimo Francesco Speroni. Finalmente qualcuno che scrive la verità storica. Se non fosse inutile, vi inviterei a mandarlo a Bergoglio. Comunque è un articolo da diffondere il più pozsibile.
Bello davvero ma anche i tuoi Deborah sono bellissimi ❤️